
La giornata di oggi va “a metà”, così ho risposto a Louis, corrispondente francese di Libération stasera.
A metà perché bisogna sempre elaborare ciò che si vede, metterlo in forma, mettere in forma le rovine del presente che sono, sempre, ciò che resta del passato.
Vale per gli umani, lo stesso per i territori. Mi restano due incontri però, oggi, ma andiamo con ordine.

Stamattina siamo andati a vedere le assurde pompe d’olio, costruzioni che risalgono agli anni ’50 del Novecento, che scaricano nel Vjosa (dentro un parco nazionale protetto, dal 2023) nella zona di Selenica, dove il fiume Shushica scorre con qualche bolla in superficie di troppo, così di plastica negli argini, dove l’acqua risacca.
C’è un lavoro d’inchiesta da fare, ci sentiamo osservati… e, in effetti, dalle colline circostanti ci guardano. Sono dentro una jeep bianca. Ci osservano con i binocoli, noi – grazie a Louis che ha con sé un binocolo – facciamo altrettanto.

L’olio nero colora e sporca di liquido viscoso lo scorrere altrimenti pulito delle acque perché, sappiamo, che la Natura ha i suoi filtri: alghe e batteri. Ma non possiamo più deputare la pulizia dei nostri scarti industriali, o urbani, o personali ai fiumi, in questo caso. Dobbiamo prenderci le nostre responsabilità. Senza necessariamente scomodare lo “squadrismo ecologico”, come lo chiamano alcuni, o le posizioni condivisibili e radicali di Mario Rigoni Stern per cui chi taglia un albero dovrebbe finire in prigione come un qualsiasi assassino.
Nella stessa area di Selenica andiamo a vedere, poi, le miniere a cielo aperto di bitume, con cui si fa l’asfalto, sempre a due passi dal fiume, ma nascosto. Il sito è a metà fra il post-industriale e la rimessa di campagna abbandonata.

Qui faccio il primo dei due incontri di oggi, che mi porto nel buen retiro della stanza, più tardi, prima di cena: una pecora sta allattando il suo cucciolo, scalcia quando tentiamo di avvicinarci, stupidi umani sempre pronti a carezzare, sapendo che il più delle volte l’uso che faremo di quella carezza è il ‘bacio di Giuda’, per sottrarre il piccolo e ucciderlo, per mangiarlo. Dietro, due mucche pascolano senza sforzo, immuni all’attenzione degli umani. Per ora.

Dopo pranzo in un ristorante locale, dove il pane lo fanno caldo e lo portano appena sfornato, e all’ingresso del locale (invero country) vengono esposte le erbe aromatiche raccolte dai campi, seccate per l’uso.
Andiamo a vedere gli sbancamenti del fiume a Shushica, gru e bulldozer direttamente nell’alveo che scassano ed erodono la pietra, il corso lungo di un dio dormiente. Anticamente, i fiumi venivano onorati come divinità pagane, vive, a essi venivano tributati giorni e offerte votive. Oggi, la capacità erosiva dell’uomo non conosce tregua, buchiamo e c’è addirittura qualche presidente nel mondo che istigherebbe a farlo ancora di più (“Drill, baby, drill”) come se quel che vediamo, costruire e ancora costruire non fosse abbastanza.

C’è vento però tra gli alberi, in mezzo al fiume prosciugato. Il bianco delle pietre riposa gli occhi col sole all’orizzonte, cala, così la presenza di fastidiosi insetti. Fa ancora 31°C, ma la sera porta consiglio. E riposante silenzio. Qui faccio il secondo incontro poco prima del tramonto.
Un cane selvatico vecchissimo, un meticcio maschio, molto vecchio, torno nel van per prendere (rubare, non erano mie) 4 noci da lasciargli a terra, rompo il guscio con la pietra – chissà quante altre scimmie avranno fatto lo stesso gesto nei millenni prima di me – gli lascio le noci rotte a terra, alcune gliele lancio vicino, è seduto, mi guarda ma non si muove.

Le mangerà solo quando ce ne andiamo. Lo vedo in risalita sulla collina friabile, sotto i piedi, in mezzo alla vegetazione brulla. Un cane, solo, in mezzo al niente ventoso di queste valli stupende, che l’uomo tenta sempre di proteggere, prima di capire che vanno preservate e protette, legalmente, individualmente e politicamente. Con tutte le azioni possibili.
 
							 
							