E poi il terzo giorno arriva e ti insegna la bellezza della rinuncia. Imparare a sentirsi spersi, non riuscire nell’intento programmato.
Noi che siamo abituati a fare tutto nei tempi, la performance scontata delle aspettative. Disattese, qui. Perché il tempo. Perché la nebbia e la pioggia. Perché valiamo se il più grande Tempo entro il quale siamo iscritti ce lo permette. Perché nasciamo in un luogo invece che in un altro.
Oggi mi insegna che un conto è il programma a cui aderire – le regole, i rapporti, la necessità di stilare piani concreti di azione, che ci portino a sapere tutto in anticipo, la malattia dell’ordine precostituito, la dittatura della scansione del tempo – e un conto invece sono le condizioni entro le quali agiamo, anche se ce lo dimentichiamo. E così una pioggia battente, scroscio di gocce senza scampo, ci impediscono di camminare un percorso che avremmo voluto, quel giorno che avevamo dedicato, programmato. Ma le condizioni mutano e questo lo sanno gli scienziati che lavorano sui sistemi complessi.
Lo stesso se oggi non avessi preso la nave per Nólsoy, piccola isola davanti Tórshavn – che significa letteralmente “porto di Thor”, gli dèi che tornano – non avrei preso tanta acqua da sentirmi bagnate anche le ossa, non avrei però neppure pensato alla rinuncia in termini di bellezza: in questo caso, abdicare significa infatti tornare indietro sui propri passi e scoprirsi duttili e per niente arrabbiati contro il destino (arrabbiati perché, per cosa precisamente?).
Dovremmo invece indirizzare le nostre forze verso un progetto, una ricerca, per me il tentativo è trovare la bellezza ovunque, tentare di cambiare le parole con le quali prefiguriamo i luoghi, così da imparare a chiamarli in un altro modo, e siccome le parole mettono in forma il mondo questo ci consentirà di cambiarlo quel mondo, senza calare dall’alto.
Se oggi non avessi preso quella nave invece non avrei visto la mia capacità di perdere (tempo, occasioni, non riuscire a) e lo stesso scoprirmi invece gentile con il tempo che mi è concesso, comunque. Non avrei sentito il profumo di pesce essiccato e caldo nell’aria sferzante tra le vie del piccolo villaggio di Nólsoy.
Non avrei odorato il mare né avrei sentito come reagisce il mio corpo sotto i jeans alla pioggia fredda. Non avrei incontrato il sorriso del vecchio marinaio che mi ha accolto al rientro sulla nave, quando mi aveva salutato poco prima, non facendomi pagare nemmeno la tratta del ritorno. Non avrei conosciuto la gentilezza di cui siamo dotati, noi esseri umani, quando non ci lasciamo corrompere.
Non avrei scritto una lettera a una persona amata, come se fossimo ancora ai primi del Novecento. Né al rientro in albergo mi sarei concesso la sauna che invece mi ha, di nuovo, asciugato il corpo. Questo corpo che spesso dimentichiamo. Presi come siamo dal tutto testa dei giorni. Mentre invece piove, fuori, è freddo, caldo. Siamo il tempo nel quale abitiamo.
Il clima esterno, ce lo dovremmo ricordare tutti i giorni, questo forse davvero cambierebbe la nostra relazione con lo spazio. Oltre che quella con il tempo, lo scorrere delle ore e gli anni, pochi, che abbiamo per cambiare la nostra relazione con l’ambiente. Abitiamo lo spazio e il tempo. Starà a noi comprendere, infine, come impiegarli.