“In Oriente con Tiziano Terzani” di Tamara Baris – un’intervista


C’è un velo di profondità e malinconia per il perduto, l’istinto, la vita nelle sue pieghe d’altrove in questo viaggio In Oriente con Tiziano Terzani di Tamara Baris, dall’emblematico sottotitolo, Sui sentieri dell’altro (inserito nell’interessante collana “Passaggi di dogana” della Giulio Perrone Editore, 16 euro). Baris collabora con Treccani, editor freelance, scrive articoli per Treccani.it e La città dei lettori. Al suo primo libro, ci consegna – oltre al ritratto d’animo di uno dei più importanti reporter italiani e internazionali – un pezzo di ossigeno di pensiero. Con uno stile sobrio e umano, Baris resta attaccata all’aria che staziona a metà fra il nostro mondo e quello senza infingimenti a cui tutti, tutte, dovremmo aspirare. E non è questione di illuminazione, piuttosto accordo sul tema del sacro contemporaneo, che non ha mai a che fare con la forma della religione quanto al contatto con la verità, quello svelamento proprio dei classici. Baris così ci consegna un reportage nella geografia di un mondo interiore prezioso quanto ispirato, un tempo recuperato, che tutti dovremmo, non solo quando la vita remi contraria.
È prezioso quando si incontrano libri così, che continuano a parlare anche quando li chiudi e lo stesso le parole continuano a girare, sotto, precise ed essenziali.
QUI il link all’archivio digitale del Fondo Terzani.

UN’INTERVISTA A TAMARA BARIS a partire da In Oriente con Tiziano Terzani.
Il Tempo è un elemento essenziale per Terzani, così nel libro lo troviamo declinato:tempo lungo, tempo-eternità, persino nel suo contrario di atemporalità. Cos’hai capito del Tempo, cos’è?
«Rispondo istintivamente: il tempo è l’unica cosa che mi interessa davvero, questo mi sento di dire. Non sprecarlo: in questo senso, mi ha sempre colpito quello che sentiva e diceva Terzani che sentiva “il peso della storia”, che temeva di essere dimenticato, non amava le parole e le conversazioni vuote. Mi ha sempre colpito quella sua ferrea volontà nel tentativo di non sprecare la vita. E per me non sprecare la vita, significa avere tempo e avere tempo è non perdere le cose e le persone che ami. Il tempo mi sembra una forma di felicità. Una sfida. Una spinta ad aderire a sé stessi. Ma anche cercare e trovare respiro, in una vita densa: il saggio bisogno di una pausa, di ritrovare la lentezza».
Perché nell’era dei social e del selfie (io, ego) sono importanti le non-parole, ciò che non si vede?
«Credo non siano importanti solo oggi, ma lo siano sempre state: ciò che non si vede, ciò che non si dice, ciò che può essere intuito. È importante tutto quello che, non immediatamente leggibile, presuppone una lettura attiva, uno sforzo di comprensione e approssimazione verso l’altro. E lo è per ritrovare un dialogo, per avere in tasca le parole giuste per comprendere».

Conoscere l’altro: chi è “l’altro” oggi, gli altri, da conoscere oggi?
«L’altro può essere anche la parte di noi stessi che non abbiamo ascoltato o che non ha più trovato una risposta esternamente e si è arresa e ci dorme dentro, ma è soprattutto la prima persona che incontriamo di fronte a noi per strada, o quella che non conosceremo mai, ma di cui ascoltiamo distrattamente la vita al telegiornale e pensiamo di poter giudicare comodamente seduti sul divano di casa. L’altro è tutto quello che non siamo e che non dovremmo mai smettere di rispettare. A volte, è chi ci fa paura (denunciando i nostri egoismi, le nostre fragilità, la nostra ignoranza); altre volte è chi ha avuto coraggio o altre volte ancora meno fortuna. L’altro, per riprendere quello che mi chiedevi sopra, potrebbero essere anche le parole non dette, le storie senza una voce, il racconto mai nato e – anzi – in molti casi banalizzato. Gli altri sono uno sforzo di comprensione fatto o mancato per molti. Gli altri sono i lemmi del vocabolario delle nostre esistenze che non dovrebbe mai essere povero, che dovrebbe essere sempre più aggiornato o, in alcuni casi, coraggioso».
Il mondo sta cambiando, un’altra volta, cosa direbbe della nostra contemporaneità Tiziano Terzani?
«Difficile dirlo e neanche mi azzarderei a rispondere: possiamo e, forse, dobbiamo soprattutto dire qualcosa noi del mondo che abbiamo intorno, leggendo le tante pagine di Tiziano. Molte delle quali hanno anticipato i difetti, le mancanze, gli orrori del nostro tempo: Tiziano, che era uno che grattava (uso questa parola non a caso) le cose in profondità, le aveva annusate in superficie, aveva capito come sarebbe andata, ci aveva messo in guardia rispetto a quello che stava succedendo e sarebbe potuto succedere. Direbbe, però, sicuramente di prendere parte, di metterci la faccia. Penso a Lettere contro la guerra, a uno dei passi che cito nel libro, a quando scrive: «Ho sentito forte la necessità istintiva di dire la mia, di farmi vedere. Esco in piazza e mi faccio vedere in giro con la mia barba bianca, perché credo che questo sia il momento in cui bisogna farsi contare». In questo mondo che sta cambiando, dobbiamo farci contare, anche noi».
A un certo punto scrivi di un “nuovo lessico” necessario per la comprensione del presente: quali sono tre parole per iniziare questo nuovo modo di descrivere e comprendere il mondo?
«Fiducia. Lentezza. Competenza».

Molta della vita di Tiziano Terzani può essere racchiusa nel rapporto fra piccolo (Orsigna) e il grande (il mondo): cosa hai capito di questo rapporto?
«Ho sempre pensato che ogni cosa, piccola o grande che fosse, meritasse la stessa attenzione. Credo che ce lo abbia ben raccontato e dimostrato anche Terzani (penso soprattutto all’ultima parte della sua vita, ma credo lo abbia sempre saputo benissimo). E penso che anche in questo ci sia l’attenzione di una definizione, l’importanza del contesto, un rifiuto della banalizzazione: tenere ben saldi, messi a fuoco gli estremi, conoscerli e vivere tra questi due poli, modulare ogni volta la predisposizione d’animo. Sapere che il piccolo è piccolo, il grande è grande, ma sono ugualmente belli e necessari entrambi. A Tiziano interessava quello che aveva intorno: la pace di Orsigna, l’Asia che aveva vissuto sulla propria pelle, l’Asia in cui aveva ritrovato sé stesso. Il piccolo e il grande erano ciò che aveva intorno».
Gli oggetti sono tutto quel che resta di noi?
«Non tutto, ma ciò che si può toccare, vedere, annusare. Se penso a Tiziano, penso che ciò che è rimasto di lui – e che rimarrà ancora – è la sua voce, per esempio: quella affidata ai suoi libri, quella letta, amata, rielaborata da chi lo ha conosciuto, letto, incontrato, sentito – sulla propria pelle – come un esempio. Di oggetti ne ha lasciati molti: forse collezionarli o accumularli è anche un modo, per tutti noi, per lasciare tracce o per illuderci che ne restino (in alcuni casi scompaiono poco dopo di noi se nessuno avrà la stessa cura). Ma Tiziano ha scritto e raccontato il mondo: questo resterà molto di più di ogni altra cosa. Chi scrive diventa fantasma, consegnandosi all’eternità (anche se all’eternità di noi esseri umani, forse)».
Scrivi che la guerra è una merda, cosa ti ha insegnato Terzani nella messa a fuoco dei conflitti odierni?
«Lo scrivo citando un giornalista (e un pensiero comune a molti di noi, a chiunque conservi umanità): «la guerra è merda, sangue, morte, dolore». La citazione è di Nico Piro, un inviato Rai, il libro è Maledetti pacifisti (People). Tiziano mi ha insegnato a leggere con attenzione quello che accade, a cambiare idea se necessario – lui lo ha fatto – ad ascoltare le voci differenti, a non perdere di vista ciò che è giusto, a non arrenderci all’odio come risposta all’odio. E mi ha insegnato ad ascoltare attentamente chi oggi fa il suo lavoro, a cercare chi lo fa sentendoselo addosso, a non pensare sempre di avere una risposta in tasca per tutto, ma a saperla cercare in giro, trovandola in chi è andato direttamente a cercarla, in chi ha studiato a lungo, in chi l’ha vissuta sulla propria pelle».
Quando si parla di Angkor Wat scomodi il concetto di “fantasmi”: cosa sono, chi sono questi spiriti dei luoghi?
«Potrei darti una risposta lunga e potrei cadere anche nel tranello classificatorio, ma forse sarebbe noioso. Cedo all’istinto, di nuovo, e ti dico che gli spiriti dei luoghi – a prescindere dalla nostra formazione – sono le cose che non ascoltiamo più abbastanza e che dovremmo ricominciare a sentire. Scomodo la parola fantasmi soprattutto perché è parola terzaniana (ma che è sempre piaciuta anche a me e a me intesa come lettrice). Sentire gli spiriti dei luoghi, però, forse, posso anche dirti che ti fa vedere gli occhi degli alberi, in un certo senso. Può voler dire molte cose, possiamo vedere la questione da diversi e lontanissimi punti di vista, ma alla fine di tutto penso che fermarsi a riflettere su cosa e chi siano, possa aiutarci a vivere meglio su questa terra. Anche solo chiederselo, andare a cercarlo se non si sa assolutamente che pesci prendere, incontrare – appunto – una profondità di lettura diversa, un modo che non sia quello che ci fa pensare sempre di sentirci padroni di tutto (e di tutti i luoghi)».

Terzani è stato un grande reporter, nel libro ne parli con Raffaella Cosentino, quanto è importante testimoniare|guardare|perdersi nel mondo?
«È fondamentale, non solo importante. È toccare con mano, capire, studiare a lungo e poi lanciarsi dentro le cose per conoscerle davvero, dare una voce a chi non ce l’ha, aiutare la verità a non morire, cercare di darle la forza per difendersi, consumare la suola delle scarpe. I reporter (la figura del giornalista) dalla pandemia e poi soprattutto con la guerra in Ucraina, prima, e in medio Oriente poi, sono tornati protagonisti. In un mondo così fuori asse come il nostro, a volte, sono anche finiti nel tritacarne di odio, ignoranza e rancore che contraddistingue il dibattito feroce e acritico dei social (e spesso anche del mondo in cui viviamo). Il giornalista vero è l’unico antidoto a un racconto banale e approssimativo del mondo, alla faciloneria a cui questi tempi distratti ci stanno abituando. Il giornalista vero che conosce e sa, che si muove e cerca, può e deve raccontare quello che accade, può e deve cercare in tutti i modi di riavvicinare le persone (le persone, non la gente) al racconto onesto delle cose del mondo, a un racconto che sia approfondimento e non carrellata di notizie senz’anima. Tiziano dice di aver fatto l’unico lavoro che potesse davvero sopportare, tante volte si è definito viaggiatore, ma è stato un viaggiatore prezioso, un costruttore di ponti, la voce che veniva da lontano (dove a volte non era riuscito ad arrivare nessun altro), è stato un grande giornalista e abbiamo ancora bisogno, avremo sempre bisogno di persone mosse dal desiderio di raccontarci con competenza ed empatia quello che sta accadendo lontano dai nostri occhi e dalle nostre orecchie (e qualcun altro vuole raccontarci in maniera distorta o vuole consegnare al silenzio). Questo, mi sento di dirti, in breve».