Israele blogdiary giorno 2

Uscire da Tel Aviv stamattina non è stato per niente semplice. Ma non per il traffico della domenica mattina, che è più o meno il nostro lunedì. Non è stato semplice per la sensazione di star abbandonando una città di speranza. Come scriveva il poeta friulano Pierluigi Cappello: “di vita e morte”. Guardare lo skyline di Tel Aviv da Jaffa, respirare l’odore del primo quartiere di questa città.

Del resto dobbiamo proseguire in direzione Nord, verso la Galilea e la Cesarea. Dobbiamo anzi “salire” in senso metaforico verso Gerusalemme. Il sense of humour della nostra guida, Igor l’ebreo lettone, dal nonno rabbino in segreto, che ci racconta le storielle yiddish che fanno tanto ridere noi occidentali: “A Haifa si lavora. A Gerusalemme si prega. A Tel Aviv ci si diverte”.

C’è anche una divertente storiella che gli ebrei si dicono tra loro, acutamente auto-ironici come sono. Sotto, tellurico, lo avverti però. Il peso delle parole. Su cosa sia il sionismo, o la parola yiddish, la differenza tra ashkenaziti (est e Europa) e sefarditi (gli ebrei spagnoli).
La mattina facciamo tappa al Kibbutz shefayim specializzato in sport e attività all’aperto, all’interno un AcquaPark e una sala matrimoni piuttosto maison du monde style. Mentre siamo lì passa un trattore, odore di melanzane fritte nell’aria, un gruppo di bambini – avranno 4|5 anni – si mettono seduti per terra, i gatti passeggiano nelle aiuole, con le insegnanti intonano canti insieme agli uccellini sugli alberi: è la stessa magia, la medesima insensata delicatezza, a pensare che lì fuori c’è il mondo dei “grandi”.


Il viaggio verso la Cesarea è terra rossa e agrumeti, i turchi qui deforestarono gli alberi per prendere il legname che serviva a costruire, passano gli anni, i secoli: cambiano gli uomini ma il modo di sfruttare le (limitate) risorse della Terra è sempre la stessa. In tutto il mondo.
L’arrivo al più grande kibbutz d’Israele, il Magaam, è sotto un sole a 24°C, cielo sgombro e nuvole sottili. Un giardino enorme, un italiano di Firenze che si è trasferito qui alla fine degli anni ’60. Tutto è socializzato: dalle auto (mediante un sistema di assegnazione elettronica a richiesta, mediante chip) alla lavanderia: si mettono i soldi in una cassa comune, in modo collettivo, qualsiasi cosa serva a uno dei 2.200 abitanti del kibbutz ci pensa il Consiglio. Saggi o no, in ogni caso, si cerca di essere mutuali, anche se dopo il Covid-19 ci si incontra sempre meno, ci si incontra per mail, non si fanno più grandi pranzi a lunghe tavolate. Anche il socialismo non è più quello di una volta (!)

Tutto è cambiato. Il tempo è pulviscolo, le scelte grani di luce e polvere. L’Era Tecnologica. Ma i bambini, i bambini sono sempre gli stessi, a qualsiasi latitudine: giocano, corrono, vanno in bici. Solo loro valgono il tempo, la cura, la speranza.
Come guardare il Mare Mediterraneo da queste latitudini. Non lo avevo mai visto prima. Profuma di candore; del resto, queste sono le acque sopra le quali il Cristo camminò per i cattolico-cristiani.
Europa, Medio Oriente, Africa, America. Cambiano anche i continenti. La sensazione però è la stessa su tutte le terre emerse: ascoltare, e camminare sui litorali delle storie, della salsedine che porta a riva tutte le leggende ai confini dei mondi.