Perché non stiamo facendo abbastanza per salvarci? Sarà davvero come dicono gli occhi color del ghiaccio di Alex Bellini, 44 anni, esploratore, una questione di: “farsi trovare vivo dalla morte quando sarebbe arrivata”?
E’ davvero questo l’uomo: sogni infranti e mancanza di volontà, come giustificare altrimenti il fatto che il genere umano stia continuando a inquinare il pianeta su cui vive, cresce e prospera? Anche se gli scienziati ce lo dicono da anni, e gli effetti sul clima, il surriscaldamento globale, i mari pieni di plastica, sono proprio lì a un passo dalla salvezza, e invece…
A pochi giorni dalla discussa Cop27 in Egitto, a cui ha partecipato, il divulgatore ambientale torna con un libro, Viaggio a Oblivia. Perché dovremmo essere ecologisti ma non ci riusciamo (Feltrinelli, €17), un documentario E’ solo acqua e vento uscito nei giorni scorsi per la Rai; lo abbiamo raggiunto, infine, appena un paio di fermate prima di ripartire.
Ci racconti il tuo prossimo viaggio?
«A dicembre viaggerò con mia moglie e le mie due figlie di 11 e 13 anni sul Mekong, tra Laos e Cambogia, con una zattera che ci costruiremo noi con materiali di riciclo (l’intervista risale al 3 dicembre ndr). Questo viaggio è parte del progetto 10 rivers 1 ocean con l’obiettivo di navigare sui dieci fiumi più inquinati di plastica al mondo».
Torni dalla Cop27 in Egitto, nonostante le polemiche, ci sono stati risultati positivi?
«Per la prima volta nella storia della COP, i giovani hanno avuto uno spazio ufficiale tutto loro. Un secondo risultato positivo, forse il primo che viene in mente quando si pensa ai negoziati di Sharm el-Sheikh, è l’istituzione del fondo Loss and Damage con cui i paesi ricchi e più inquinanti saranno chiamati a risarcire i paesi più poveri e vulnerabili per i danni causati dalle emissioni. Questa non è solo una vittoria finanziaria, perché i paesi più colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico avranno il loro fondo per ripagare i danni e le perdite subite, ma anche una vittoria politica e strategica purché hanno imposto la visione che era tutta sintetizzata nel messaggio riportato nel padiglione del Pakistan “Quello che succede in Pakistan, non rimane in Pakistan”. Il terzo segnale positivo è che Cina e Stati Uniti hanno rinnovato la loro partnership per affrontare la crisi climatica e stanno lavorando in modo produttivo sui modi per ridurre le emissioni, ma è prematuro chiamarlo risultato (positivo). Limitiamoci a considerarlo un segnale».
Ti possiamo vedere in TV, dove: di cosa parla il documentario Rai che ti vede protagonista?
«Il regista Luca Rosini ha prodotto un documentario dal titolo E’ solo acqua e vento andato in onda la scorsa settimana e visibile ora su Rai Play (qui). Nel documentario racconto gli snodi importanti della mia vita, senza però nasconderne i deragliamenti, e poi racconto la relazione con le distanze, con il dolore, la fatica, e la gioia delle grandi conquiste. Racconto di imprese estreme, ma anche di quelle più normali, che non sono mai meno eccitanti. Lo faccio anche attraverso le voci di altri, di mio padre, di Folco Terzani e poi ovviamente di Francesca, mia moglie, e co-capitano della barca su cui navighiamo felicemente da ormai 15 anni».
Nel tuo ultimo libro parli del “complesso organismo che chiamiamo Terra” serve una nuova visione d’insieme. Quale?
«In Viaggio a Oblivia cito Thich Nhat Hanh, monaco buddista vietnamita e premio Nobel per la Pace nel 1964, che ha coniato il termine inter-essere per esprimere la realtà dell’interdipendenza reciproca nella relazione umana e nella nostra relazione con il mondo naturale nel suo insieme. A differenza del verbo essere, che non esclude la possibilità che si possa essere “da soli”, essere nei termini espressi da Hanh, implica sempre una relazione di reciprocità con l’altro. Il significato dell’inter-essere è la realizzazione che non esiste un sé indipendente. Questo approccio profondamente ecologico sul senso delle cose e il ruolo dell’uomo nella rete di relazioni con la vita non umana, ci deve portare a fare delle riflessioni sulla necessità di ritrovare un baricentro spirituale che oggi sembra essere scomparso. Ciò darebbe alla nostra vita un significato e uno scopo che va oltre la visione materialistica, e potrebbe essere un’importante fonte di ispirazione per affrontare i problemi del nostro mondo. Attuare questa nuova visione richiede una nuova storia di noi e del nostro futuro. Sul New Yorker, Elizabeth Kolbert scrive che le narrazioni sono storie socialmente costruite che danno un senso agli eventi. Narrazioni diverse producono risultati diversi. Pensiamo alle narrazioni più frequenti sul cambiamento climatico: in genere mettono in primo piano l’idea di un destino oscuro, spesso sottolineando il rischio a cui stiamo andando in contro in caduta libera. Questo approccio, secondo Kolbert, può essere controproducente poiché le narrazioni della paura possono diventare profezie che si auto-avverano. Se le persone credono che le cose possano solo peggiorare allora, come moderni passeggeri di un Titanic destinato all’affondamento, tanto vale starsene in prima classe a bere whisky, e le cose a quel punto si metterebbero male davvero. Ciò che serve invece sono narrazioni che producano nelle persone nuovi modelli mentali più evoluti che le incoraggino a pensare in termini di relazioni e di contesto e non più di soli oggetti separati».
Parli di una visione del mondo incentrata sulla biofilia: cos’è e come si insegna?
«La biofilia è la propensione innata degli esseri umani ad affiliarsi ad altre forme di vita e a ricercare connessioni con la natura. Questo bisogno di connettersi con il mondo naturale è considerato un meccanismo adattivo che ha consentito loro di sopravvivere e prosperare nel passato evolutivo. Tuttavia, una percentuale sempre crescente della popolazione mondiale vive oggi in grandi aree urbane, senza o con debili connessioni con la natura e ciò è, per molti ricercatori, la spiegazione della scarsa attenzione verso l’elemento naturale. Per promuovere comportamenti più ecologici andrebbe riattivato questo meccanismo e una modalità è quella di garantire che i bambini, che crescono in ambienti urbani, siano regolarmente esposti alla Natura o facciano esperienze all’aperto perché ciò potrebbe promuovere la consapevolezza ambientale per tutta la vita».
Leggendoti scopriamo anche che, in fondo, aveva ragione Sofocle, perché?
«A Sofocle sono attributi moltissimi aforismi che contengono altrettanta saggezza. Uno di questi dice “Non conviene riempire di miele un vaso che sa di aceto”. Penso si riferisse al fatto che non si possa mettere – citando Joseph Campbell – vino nuovo in otri vecchi. Vino o miele che sia, bisogna sbarazzarsi dei vasi vecchi e diventare creatori di vasi nuovi, e solo a quel punto riempirli. I vasi sono i contenitori, ma metaforicamente parlando sono i modelli di pensiero e di comportamento che guidano le nostre scelte. La crisi climatica è spesso considerata un problema ambientale, ma credo sia invece un problema del tutto umano. Per risolvere la crisi ambientale non basterà ripulire gli oceani o i corsi d’acqua, riforestare i boschi distrutti o ripopolare gli ecosistemi, se prima non ci saremo presi la briga di sviluppare un sistema di credenze più evoluto, perché è folle tentare di risolvere un problema con gli strumenti con i quali l’abbiamo creato. Questo mi fa pensare che la prima forma di transizione sia, quindi, di pensiero».
Cosa ha a che fare la scala (d’inferenza) con questa visione? Il tuo “mondo ideale” com’è fatto?
«La scala dell’inferenza è la rappresentazione delle fasi del processo decisionale. Come ogni scala, anche quella dell’inferenza è composta da pioli. Partendo dal fondo, il primo piolo è la raccolta delle osservazioni e dei dati. Successivamente questi dati vengono fatti passare al setaccio dell’analisi individuale. Questo processo di filtraggio si basa su un insieme di credenze e supposizioni e ha un ruolo determinante nella percezione della realtà, che tenderà a ignorare o a scontare quei dati che non si adattano allo schema predefinito. Dopo una serie di altri passaggi intermedi, in cui entrano in gioco anche le emozioni, l’ultimo piolo è l’azione. La visione del mondo, il modo cioè in cui diamo senso alle cose che accadono e la relazione tra di loro, è un elemento importante perché concorre a formare i modelli mentali che sono una maniera molto economica di usare le nostre risorse cerebrali, ma tende a farci diventare completamente prigionieri degli schemi che ci siamo costruiti, alla maniera di un canarino che si muove sì veloce, ma in uno spazio ristretto. Io non ho un modello mentale preferito, mi sforzo il più possibile di cercare ogni volta un modello mentale di segno opposto, ma altrettanto valido, e ciò mi aiuta a non cristallizzarmi su strategie di pensiero e azioni uniche».
Torniamo alla plastica in mare, nei tuoi viaggi hai visto con i tuoi occhi il Great Pacific Garbage Patch: com’è? E cosa implica?
«E’ una visione desolante. Tanto lontano da terra, dagli occhi e dalle coscienze delle persone da non ricevere l’attenzione che si merita. Il Great Pacific Garbage Patch copre un’area di un milione e mezzo di chilometri quadrati al largo delle coste della California su cui galleggiano oltre cento mila tonnellate di rifiuti. Metà della massa del GPGP è composta da reti da pesca abbandonate, anche se per quantità il 94% è composto da micro-plastica, frammenti di plastica più piccoli di 5 mm provenienti da sacchetti, bottiglie e altri contenitori e articoli. L’impatto ambientale dell’inquinamento da plastica nel GPGP dipende dalle dimensioni dei detriti. Mentre i detriti più grandi galleggiano sopra o vicino la superficie e colpiscono la vita marina più grande, le particelle più piccole si fanno strada nella colonna d’acqua verso il fondo del mare quindi risalgono la catena alimentare dalle creature più piccole a quelle più grandi, noi compresi».
Si parla ancora poco di migranti climatici li hai incontrati?
«In India ho conosciuto piccole comunità costruite con il fango e la paglia, che da migliaia di anni rinnovano un patto con la natura: tra giungo e ottobre le pianure vengono invase dall’acqua, le case spazzate via, le famiglie e i loro animali costretti a trovare riparo altrove, e quando l’acqua si ritira lascia dietro di sé una terra ricca di nutrienti che arrivano dalle montagne dell’Himalaya che gli agricoltori torneranno a coltivare ed abitare con altre case di fango e paglia. In Pakistan ho visto uomini e animali tirare a campare con quel poco di acqua che scorre ancora sul fiume e interi quartieri di Karachi che di acqua non ne vedono più da diversi anni. Loro non migrano perchè non saprebbero dove andare e quel che rimane da fare è adattarsi a condizioni sempre più difficili. Durante la navigazione sul Nilo, al Cairo, ho incontrato una famiglia residente nella città vecchia che, stanca dell’aria irrespirabile del centro città, stava traslocando in una zona residenziale di nuova costruzione a est del corso del Nilo, sui confini con il deserto, chiamata Mountain View. Sono tanti i progetti residenziali di questo genere che promettono alle famiglie facoltose ciò che al Cairo non possono più trovare: prati, alberi e una vita più green. Almeno da lì, dalle loro case nuove con vista sulla valle del Nilo, il disastro ecologico sembrerà più distante».