“Addio al pianeta terra”, torna in libreria il racconto fantastico amato da Rodari

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Quando venne pubblicato per la prima volta il romanzo di Luciana Martini, Addio al pianeta terra, Gianni Rodari appose la sua prefazione. Era il 1965 e l’editore Bompiani lo rilasciò in libreria con l’avvertenza del ‘racconto fantastico’.
In questi giorni di inizio Cop26 e post G20, invece, il titolo apocalittico di Martini – malinconicamente definitivo – appare in tutta la sua avvicinabile disperazione, nella nuova versione appena edita nella collana le polveri delle Edizioni readerforblind, prefazione di Valentina D’Urbano (16 euro).
Al netto delle promesse dei grandi della Terra infatti (“mille miliardi di alberi entro il 2030”) pare sempre più chiaro l’atteggiamento della nostra società tecnologica rispetto all’emergenza climatica, visione appena miope, restringibile al campo di ciò che Freud chiamava pulsione di morte.
Preferiamo continuare a produrre a ritmi serrati che fermare la Macchina. E non è certo il neo-luddismo che occorre al mondo piegato dalla pandemia. Servirebbe anzi un atteggiamento adulto, che riconosca il problema dell’emergenza climatica.
Questo atteggiamento “adulto” però lo hanno solo i giovani – abitanti di un futuro contaminato quando non incerto – con le loro manifestazioni in tutto il mondo; e sempre loro, gli scienziati che, anno dopo anno, tentano di farci aprire gli occhi, mentre noi li riduciamo a probe Cassandre da interpellare giusto all’occorrenza.
Ed è proprio un ragazzino di 9 anni, Theo il protagonista di Addio al pianeta terra.
La paura, la sottile linea d’ombra d’un’oscurità senza nome si muove e s’addensa ai confini delle terre spoglie.
Theo vive con i suoi genitori in un non-tempo forse post-atomico (c’è stata forse la terza guerra mondiale? Vivono il dopo collasso energetico? Non si sa, tutto rimane sospeso nel mondo-immaginario di Martini). Un bambino come tanti che si alza dunque, fa colazione, si guarda in giro.
Tutto è uguale nel romanzo e tutto è diverso. La Natura è sempre lì, ferma, immobile, statuaria nella sua eterna bellezza. Si respira però come un collante di abbattuta, disperata, sensazione di fine. Tutti stanno lontani dagli altri. Tutti si tengono a distanza. I padri dai figli, gli animali dagli uomini, la verità è persa, abbandonata assieme ai rottami per le strade, le voci nelle stanze vuote di un clima cupo, v’è come un vuoto atmosferico nel libro di Martini, un fumo che si spande ovunque, è il sapore acre dell’abbandono: paesi vuoti, campanili cigolanti, cani magri e uomini e donne alla deriva, circospetti, rumori fiochi, un mondo addormentato, nevoso, e attorno il nitore abbagliante di un presente senza nome. E, lo sappiamo, ciò che non ha nome non ha futuro.
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La mente umana non è in grado di concepire la propria finitezza. La propria morte. Forse è questa avversione che ci rende distratti di fronte ai dati, forse è per questo che spostiamo di anno in anno più avanti la necessità di intervenire. Facciamo domani ciò che potremmo fare oggi. E’ meglio la gallina domani dell’uovo oggi. Finalmente una risposta al vecchio adagio.
Solo che non c’è più “Colombo”: tutto è in discussione, e le scoperte (compresa quella dell’America) le abbiamo compiute spesso sterminando quegli stessi popoli indigeni che oggi cacciamo dalle foreste primarie. Salvo poi mettere al bando la deforestazione entro il 2030, come i grandi del pianeta hanno dichiarato alla Cop26 di Glasgow, mentre scriviamo, poche ore fa.
“La fine di tutto” è un concetto troppo complesso da prendere in considerazione. Così anche per Theo. L’unica cosa che possono fare Theo e i suoi genitori è partire. Spostarsi per le lande oramai desolate di questo mondo-di-ieri, o di dopo-domani. Non c’è linearità di tempo infatti nel romanzo di Martini: non ha importanza quando non c’è futuro. Si parte verso l’ignoto. Che nel romanzo è ancora sul pianeta Terra, invece che su improbabili altri mondi (vedi alla voce: “colonizzare Marte”).
Theo non crede alle favole, mentre la sua mamma piange, crede al suo cane Jack, gli fabbrica persino un guinzaglio mentre il cane, incosciente, rincorre zanzare mentre tutto svanisce: illusioni, giorni, probabilità di sopravvivenza.
La scrittura di Martini appare semplice, un libro per ragazzi come potrebbe esserlo Il signore delle mosche di William Golding. Anche lì, come in Conan il ragazzo del futuro di Alexander Key (da cui Hayao Miyazaki trasse la sua serie cult): sono i ragazzini che vivono la fine del mondo, e lo fanno con quella punta di naturalissimo adattamento che ai “grandi” sarà impossibile avere.
I protagonisti di queste storie giocano, corrono, guardano al mondo che-è-già-cambiato mentre i grandi si affannano, seri e drammatici, a giocare a un mondo che non è più.
Tutti sono ostili, estranei, padroni, cene all’addiaccio, in cammino per nessun dove. I protagonisti dell’addio al pianeta sono profughi climatici, camminatori di un presente liquido dove non c’è più covo amniotico né salvezza. E la “casa” è il posto che hai appena lasciato.
Un po’ come se l’autrice fissasse per noi un sottotesto al suo romanzo, un’avvertenza: stiamo scegliendo la malinconia alla ri-costruzione. Preferiamo rimpiangere (il domani) che provare (oggi) a cambiare le cose: è davvero così difficile? Il romanzo di Martini è una domanda aperta a tutti noi, 55 anni dopo.
L’autrice fiorentina, scomparsa nel 1985, accompagna il lettore sopra treni deragliati, lungo binari abbandonati, un sapore di ruggine ovunque, apre per noi lo spiraglio di un tempo di destinazione. Si può intravedere già qualcosa. Città chiuse, luci fioche, bambini che si perdono e uomini taciturni, uccelli migratori e magre consolazioni; ci sono persino soldati, non ci si può far vedere in giro però, dobbiamo tutti stare chiusi, appartati, mentre il sole sempre più glauco rende l’atmosfera di Addio al pianeta terra appena al limite di un baratro che non vogliamo vedere, “dove finisce il rosseggiare dei confini del campo è posato il nero coperchio del cielo”. Luciana Martini come Giuseppe Berto: sarà tutto un viaggio crepitante, vi sarà ovviamente molto da perdere, ma almeno siamo insieme, ci dice l’autrice. E la consolazione sta tutta qui.