Białowieża blogdiary 4 – guerra e pace

Stamattina mi sono spostato a nord, a Tycocin, un’ora e mezza circa da qui. Esattamente a mezza distanza da Lituania e Bielorussia. Duemila abitanti e un fiume.
La sinagoga è del 1642, vengono pellegrini da tutta Europa. La mia guida, Bogusław mi raccontava che in città fino agli inizi del secolo scorso c’erano cattolici e protestanti, luterani ed ebrei, e pure islamici. Tutti insieme in un fazzoletto di terra, molto è “privato” da queste parti eppure c’era un modo evidentemente, che poi abbiamo dimenticato. Me ne sono accorto più tardi nel Biebrza National Park. Prima però a Tycocin ho fatto in tempo a vedere nel museo ebraico una Torah iscritta nella pietra. Quando ci si mette l’uomo sa persino modellare bellezza. E invece penso alle deportazioni, durante il nazismo Hitler fece uccidere 3 milioni di ebrei polacchi.
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Da Tycocin sono salito ancora. Verso un altro confine. Strade solitarie. Spunteranno alci, mi ripetevo ascoltando i programmi in polacco alla radio. All’arrivo al Biebrza National Park ho parcheggiato in caseggiati squadrati. Ne ho visti per strada con i numeri civici sul lato esterno. Qui no, eppure nella desolazione di un pomeriggio di pioggia sottile, mentre finivo di prendere acqua, incessantemente da stamattina, un sudario, ho immaginato, Ma pensa davvero se vedo gli alci.
Allo shop compro due magliette con su il loro faccione – in polacco alce si dice, łoś, in russo los’; in inglese, elk, in tedesco, elch: le lingue sono meravigliose.
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Il sentiero però inizia subito con un cartello di zona militare. Più vado avanti più mi rendo conto che al posto degli animali, e delle piante, a differenza di Białowieża, dove torno domani, qui c’è storia umana. Fortini, gallerie scavate, vecchi bunker crollati. Prima, Seconda Guerra Mondiale.
Per fortuna lungo il sentiero incrocio anche passerelle e ponti di avvistamento, le anatre se ci sono si tengono alla larga, così i castori che in zona sono laboriosi aiutanti della tenuta del territorio. E’ una zona paludosa e sferzata dai venti questa parte di Polonia.
Mi perdo per un attimo. Per fortuna incontro il proprietario di un camping che mi dà le “giuste” informazioni, anche se mi parla in polacco, col tedesco non me la cavo ma ho abitato a Berlino per un paio di mesi qualche anno fa, quindi riesce a dirmi che per fare il giro che voglio fare devo uscire dalla foresta entrare in carreggiata, sull’asfalto in pratica e passare il fiume. Ma perché? Io non voglio uscire dalla foresta. Lui, coi baffi grigi e gli occhi liquidi e arrossati di chi ha visto molto in vita, alza le spalle: e però, non so come ha fatto ma ha capito, così mi porta a vedere una foto su uno dei cartelli in legno, è inequivocabilmente la foto di un alce maschio giovane che proprio questa estate si è fatto un giro nel suo campeggio all’alba.
Me ne torno indietro con le pive nel sacco.
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Quando la civiltà degli uomini cadrà di noi resteranno poche rovine. Sono venuto qui per vedere la Natura. Come se volessi allontanarmi da tutto ciò che non è bellezza, rigogliosa, incontrollata, il selvatico.
Sulla strada del rientro, pioggia fastidiosa, fitta, leggeri spilli che hanno inzuppato ormai la mia felpa, lo zaino, per fortuna non la macchina fotografica, incontro un incidente, per fortuna senza conseguenze.
Poi all’improvviso di nuovo due cerve giovani che brucano agli angoli della strada. La Polonia è così. Ti giri e lo sai può spuntare di tutto, magari chissà anche un orso.
A casa da Slaw e Alexandra prendo la bici del nonno di Slaw. Adesso ci vado a fare un giro, rifletto. La pioggia sa essere molto dissuasiva. E in casa mi aspetta il fuoco nella stufa, una doccia calda, scrivere, un tagliere e tra poco una tisana. Il tempo non basta. Il tempo si è moltiplicato.
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