“Paplush era lui ed era il pioppo”. Il nonno e l’albero del parco del Sempione. E’ una storia di soleggiate mattine primaverili e fiori che si staccano questa di Giuseppe Lupo, Il pioppo del Sempione, Aboca editore (Euro 14). Sono gli alunni che ascoltano il santo bevitore, la leggenda di un uomo che nel suo nome ha il seme della terra di provenienza. Una storia di amore e morte, un giardiniere, e i due fidanzati della Corte dei Villoresi.
Si respira un’aria leggera, da fiaba contemporanea – che qui personalmente hanno subito ricordato le atmosfere lievi del libro Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano di Eric-Emmanuel Schmitt da cui venne tratto l’omonimo film con Omar Sharif ndr – nel libro di Lupo, professore di Letteratura Italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano, tra i 12 finalisti del premio Strega 2019, collaboratore delle pagine culturali del Sole24Ore. E anche qui gli elementi per costruire una storia per il cinema vi sarebbero. Gli alunni migranti di una scuola, il fumo delle pipe, il vecchio saggio che racconta storie ed emerge memorie dal passato, forse le ombre a cui tentiamo di sfuggire nelle notti stellate, sabbia sul deserto del Golan.
Che fine ha fatto la guerra in Siria?, sembra chiederci in tralice l’autore leggendo questa storia, così lontana così vicina nel tempo; che fine ha fatto l’indignazione per la morte del piccolo Aylan Kurdi (la rassegna che gli dedicarono le prime pagine dei giornali di tutto il mondo qui) o l’empatia per i fratelli migranti come li chiamava tempo fa il poeta Patrick Chamoiseau.
La grana del silenzio, così come quella degli incontri della scuola, si alternano nella narrazione al soffio del vento che sembra di trattenere fra le dita.
Forse perché in parte, stavolta qualcosa di autobiografico c’è, Lupo infatti per anni ha insegnato a migranti. Qui gli allievi dell’io narrante si chiamano Amin, Cesar, Mohammed. Nomi che ci dicono poco e tutto. Uomini come tanti. Come noi, costretti alla condanna dei giorni.
E allora la delicatezza delle dita, la lezione americana del riportare sui tasti tutto ciò che si è visto, e sentito, come insegnano a distanza di anni le narrazioni di John Steinbeck (che appresso ai contadini che scappavano dalle dust bowls) o di William Faulkner, che sollevava cassette e ferro, qui si riconoscono: “Le memorie che sentiamo raccontare hanno il potere di appianare le differenze perché è come se avessero ritrovato una voce comune, quella del tempo, che parla in ognuno di noi, ciascuno con le nostre lingue.”, scrive Lupo, che nel 2001 ha vinto con il suo romanzo d’esordio L’americano di Celenne il premio Mondello e il premio Berto.
C’è una delicatezza ne Il pioppo del Sempione che è legata al nucleo tematico di Lupo, irpino di Atella, nato nel 1963: è la filigrana della malinconia, il tempo del ricordo, di più v’è velata la perdita degli anni, lo strappo del tempo che tutto ci porta via, a Rafkani e Amin, altri due allievi, quasi la giovinezza, loro che lavorano ai telai anche col raffreddore e le orecchie tappate. Sembra di leggere cronache di questi giorni arancioni, rosso scarlatti.
Uomini e donne che faticano, altri che perderanno il lavoro, la fame e la casa, non sono tempi belli questi. E’ la peste. La peste che spazza via le nuvole e pure i fardelli però: “Nonno Paplush ha il tempo di radunare con lo sguardo l’insieme di finestre, scale, portico, colonne, passamano, grondaie e cornicioni dell’immenso edificio dove veniamo a rintanarci tutte le sere come animali braccati dalla solitudine”, scrive Lupo.
Ma c’è speranza, paplush, pioppo. E la speranza sono le storie. Le albe brume, e i passeri nel cielo, l’attenzione ai discendenti pluviali, al mondo sommerso dai giorni “prima”, così disaccorti, così veloci. Lupo ci consegna qualcosa di lieve e prezioso, con un racconto lungo pagine che volano veloci. Ci consegna con la solita garbata grazia una piuma in mano e ci dice: “Guarda: è quasi primavera”.