Cécile Coulon “Il re non ha sonno” – recensione e intervista

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versione estesa con intervista dell’articolo apparso nell’edizione odierna di Nòva-Il Sole 24 Ore, pag.10

Il re non ha sonno (Keller editore, €14, traduzione di Tatiana Moroni) è il terzo romanzo di Cécile Coulon, classe 1990, talentuosa scrittrice d’oltralpe, già caso letterario in Francia.
Siamo ad Haven – sembra heaven, ma è un “paradiso perduto” – inventata e sonnolente cittadina di provincia dell’America contemporanea (da qui, forse, il titolo del libro). Non si capisce bene neanche in quali anni siamo, anche se potrebbero essere gli anni Cinquanta del Novecento. Tutto ruota attorno alla saga familiare degli Hogan. William è un ragazzo forte e buono, proprietario di terre piene di boschi, un buon partito. Un giorno incontra Mary e la sposa. Dall’unione nasce Thomas. William non si trova col bambino, lo tratta come un peso, per Mary invece il piccolo diventa ben presto l’unica ragione di vita. Così, Thomas cresce correndo via dalle sue paure, dalla maledizione di essere figli incompiuti, intristiti dall’ombra dei giorni di chi ci ha preceduto; tutto resta inalterato, fino a che William muore di cancrena per una brutta ferita che si procura alla segheria dove lavora e tutto allora si sgretola e tutto si ricompone, tutto muore e sembra rinascere da quell’amputazione. Tutto sembra, però. Ma è solo apparire, appunto, poiché l’albero della vita ha radici lunghe, e i padri che muoiono non sempre sono libertà, molto più spesso invece divengano polvere sulla strada.
Nonostante l‘età, Cécile Coulon sembra avere la forza narrativa, un po’ rude a dispetto del suo aspetto esile, dei grandi romanzieri americani: le foreste e i grandi laghi, i piccoli animaletti da cacciare, il legname e l’odore dei corpi al mattino, la resina pungente sui tronchi, le baracche di legno, l’acqua dei torrenti e i parchi a nord, gli amici con cui salire casine sull’albero, il miele liquido spalmato sul pane grezzo delle focacce. A tratti la narrativa di Cécile – occhi e pelle e capelli chiari – potrebbe apparire ingenua, magari di quell’ingenuità che è mancanza di anni vissuti, eppure invece questo piccolo talento in crescita sembra sapere, eccome. Coulon compone umano e naturale, intimo e universale, polverizzando la rabbia e la secchezza dei sentimenti, i rivoli e la corteccia di pelle dura come scorza, scrivendo di vite piegate dagli eventi, di un Fato che scorre in mezzo ai mortali come fiume prepotente e bizzoso. Narra storie abbattute da un vento caldo, restituisce protagonisti che non sono mai eroi ma volti segnati da cicatrici profonde, nell’animo che non ha altrove.
La ragazzina è scaltro romanziere che seziona e scava sogni e paure con tocco lieve, parlando di uomini e donne confusi da sé più che dal mondo, a crescere come malcapitati steli in campi di grano riarsi e seccati. Il protagonista che ci restituisce la giovane, precisa, scrittrice è l’essere umano in tutta la sua inconsistente verità, che è prodotto di limiti e scelte compiute, l’uomo che pensa di sapere e non sa, conosce appena il suo mondo e crede per questo di capire mentre invece, inadeguato, sbaglia e accumula errori, li accatasta come tronchi buoni per l’inverno, in attesa di un tempo impietoso, che macina giorni e sole come grano e farina; una sottile polvere sminuzzata che si depositi sugli oggetti e ricordi in ultimo agli altri chi eravamo. Ed è tutto qui ciò che rimane di noi dopo la parola “fine”. È una scrittura dotata quella di Coulon, preziosa poiché trattenuta, una minestra sorbita con un cucchiaio di legno, acqua tiepida tirata con la carne e le verdure. Le parole del giovane talento francese grattano la superficie degli oggetti, restituiscono trucioli, sbeccano profili d’uomini condannati a vivere e compiere il proprio destino, compitandolo tragicamente, come nelle grandi epopee. Coulon tratteggia viaggiatori in cammino sotto nuvole gonfie, crudeli e bianche, uomini senza meta, accecati da un cielo terso e azzurro e dunque, proprio per questo, da maledire.
Il suo primo libro Cécile lo aveva intitolato Méfiez-vous des enfants sages, che potrebbe essere tradotto “Fate attenzione ai bambini buoni”. Titolo emblematico per un’enfant terrible. Ma Cécile, per fortuna sua e nostra, pare aver avuto invece “cattivi maestri”: già paragonata a John Steinbeck e Bret Easton Ellis, William Faulkner e John Ford – il che equivale a dire la Generazione perduta – probabile prossimo futuro caso letterario internazionale (è stata scoperta in patria da Les Éditions Viviane Hamy, lo stesso editore dell’autrice che si nasconde dietro lo pseudonimo Fred Vargas, in vetta alle classifiche di polizieschi e noir ndr).
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photo (C) Anton Roze

Intervista a Cécile Coulon (si ringrazia Silvia Turato per la traduzione)
1)Nel tuo libro ci sono pochissimi dialoghi, quasi tutti accennati o intimi, il peso e il calibro della tua scrittura sono spostati sulla narrazione. Cos’è allora una storia anzi, per meglio dire, cosa sono le storie?
«Non scrivo dialoghi per la semplice ragione che ancora non padroneggio le tecniche che permettono un parlare fluido e utile. Una storia è come il sangue: indispensabile al funzionamento dell’organismo. Qualsiasi cosa si racconti, si ascolti, si legga o scriva, un uomo non esiste senza storie.»
2) Molti dei personaggi del tuo romanzo sono “interrotti”, avanzi di temporale. Thomas ne è il centro, nel legame con Mary, O’Brien, Paul, l’impossibile amore per Donna. Ma in realtà è un personaggio sempre solitario, perché la sua strada si interrompe con il padre. Che metafora rappresenta nella tua scrittura il padre?
«Penso che il personaggio di Thomas sia solitario da ben prima della morte di suo padre. La scomparsa è un tema ricorrente del romanzo: assenza di parenti, sentimenti, giudizi. Il padre è la coscienza: un confine morale impossibile da superare finché è in vita. Il padre protegge, la madre deve essere protetta.»
3) Nel libro descrivi Haven, città verosimile incastonata in un tempo inesistente. Tu sei figlia della contemporaneità: che coordinate sono, oggi, il tempo e lo spazio?
«Non sono figlia del mondo contemporaneo, non siamo nemmeno parenti. Al massimo la contemporaneità può essere una vecchia conoscenza. Oggi il problema fondamentale è che andiamo sempre più veloci, ma sempre meno lontano. Trovare il proprio posto nello spazio è una cosa. Dominare il tempo, un’altra. Per questo le storie sono così importanti, perché fanno vedere dei modi di funzionamento, di utilizzo del tempo e dello spazio diversi. Le storie ci obbligano a ricordare quel che cerchiamo di dimenticare.»
4) Nella scrittura si lasciano liberi i propri personaggi, per donargli spessore e carattere, parola ed eventi: facendo il percorso inverso, cosa lasciano libera di te i personaggi che descrivi?
«Facendo il percorso inverso ho la possibilità di cambiare la vita dei miei personaggi quando mi pare e
piace. Dopo penso che i personaggi somiglino solo a se stessi e che le persone reali non siano mai migliori di quelle dei libri. Il solo vincolo che mi pongo nella scrittura e nella costruzione dei personaggi è la verosimiglianza: devono al contempo sorprendere e rassicurare il lettore.»
5) “Il re non ha sonno”, forse, si potrebbe tradurre anche come “le persone parlano e la città non dorme”. Che legame esiste tra l’essere e l’abitare (se habitus è habitat e dunque anche abitudine) e com’è fatta la tua città, quella delle tue parole?
«Ci sono posti in cui si è qualcuno solo perché si abita in tale strada o quartiere. Ecco il legame che mostro nel Re. Gli individui esistono e sono definiti solo dagli occhi del gruppo che li ha visti crescere. Direi addirittura che si dovrebbe fare un accostamento tra «nascere» e «abitare», perché è a partire da quel momento che si forgia la parte più importante della nostra identità, il nostro «essere». La città delle mie parole, bisogna leggere la poesia di Bukowski «Una poesia è una città», è l’idea che mi sono fatta.»
6) Gli uomini e le donne hanno un destino tragico e implacabile. Come ne Il vecchio e il mare, di cui rimangono infine lo scheletro di un pesce a riva e l’onesta vita da buttarsi avanti. Chi è l’uomo del quale vuoi narrare le gesta, quale il viaggio del tuo eroe?
«Ho una grandissima difficoltà con la parola «eroe»; preferisco «protagonista». Come molti altri scrittori e lettori, amo le immagini simboliche perché dicono molto in poche parole, e in quest’ottica il personaggio principale del Re è uno strumento, uno specchio. L’idea è dire, in lui guardate voi stessi».
7) Se fossi Diogene, cosa cercheresti invano nell’esistenza?
«Se fossi Diogene cercherei, invano, la comprensione assoluta, pura e illimitata.»

Credits video: Librairie Mollat, Bordeaux