
Cos’è, a r t e, oggi? Cosa significa ascoltare, davvero, un’opera nell’era della sua riproducibilità diffusa: vale di più – a livello di “segno” che lasceremo, di noi, in vita – una serie, un quadro, un libro, una statua, un film, un’opera architettonica, una canzone?
Se il mondo, quando il mondo, finirà e dell’esperienza umana sul pianeta Terra, allora, cosa resterà? E ancora, per chi scriviamo? Chi abbiamo in mente quando danziamo, parliamo, impariamo a memoria le declinazione dei verbi in greco?
Al via da domani, Ascoltatori selvaggi (tutte le info su, www.lalineascritta.it) una rassegna diffusa – nei temi e nello spazio – in cui parole e letteratura, musica e suono, arti visive e cinema dialogano e si confondono.
L’anteprima della rassegna domani a Milano, 16 ottobre, nella Sala delle Colonne di Banco BPM. Poi, si doppia sabato 18 ottobre al Museo Nitsch di Napoli e domenica 26 ottobre presso l’Opificio Puca, Sant’Arpino.
Del collettivo di artisti dell’OPIFICIO PUCA autori del progetto “OH, AH, SI! sul fiume fuori rotta”, intervistiamo Maria Giovanna Abbate (animatrice tra gli altri del Centro per le arti contemporanee Opificio Puca) e Francesco Capasso che, a partire dal mare, risalgono il fiume Volturno in un viaggio esplorativo dantesco: dall’Oasi dei Variconi di Castel Volturno all’Oasi di Caricchiano di Cancello ed Arnone, a piedi lungo gli ultimi 15 chilometri del fiume Volturno che attraversa l’area (una volta rurale) fortemente urbanizzata tra Napoli e Caserta nota come la Terra dei Fuochi, caratterizzata dalla costante presenza di incendi appiccati dai clan camorristici ai cumuli di rifiuti tossici.
Gilles Clément parla di “terzo paesaggio” sono i fili d’erba che nascono nell’asfalto, dove non dovrebbe. Nelle aree abbandonate, la natura che si riprende gli spazi, ma c’è anche (neppure troppo silente) il degrado delle periferie lasciate a sé stesse?
«Il Paesaggio Terzo, prima sfruttato e poi abbandonato come i Mondi Terzi, segno visibile del fallimento della società contemporanea, delle logiche di potere, produzione e sfruttamento, è la prima incarnazione per noi della bellezza, della potenza selvaggia del mondo – rispondono Abbate e Capasso -.
«Una bellezza possibile solo come forma di left out di qualcosa che è stato dimenticato, abbandonato, che è sfuggito al controllo ossessivo della modernità. Uno spazio di resistenza delle biodiversità, di quella natura che prova a riprendersi i suoi spazi, quelli lasciati incolti, abbandonati, e ne fa serbatoio di nuove potenzialità e possibilità. Una no man’s land la periferia a nord di Napoli che si estende fino al mare, dove la multiculturalità sopravvive all’integrazione emarginante per i più deboli, dove la diversità si rifugia e prova a resistere. In questi luoghi marginali, architetture minori, spontanee, fioriscono, analogamente a quanto fanno gli squatter immigrati insediandosi negli edifici disabitati della riva destra del fiume Volturno o gli “ultimi” costruendo le loro baracche lungo il fiume.
In questo contesto suburbano fortemente conflittuale abbiamo praticato l’azione del camminare lungo/attraverso i confini di uno spazio indeciso, sfuggito alla dissennata pianificazione urbana e all’abusivismo edilizio».
In tempi di guerra a bassa intensità, e campagne d’odio social e non, a partire dal titolo del vostro progetto: la parola “ascoltare” cosa significa? E cos’è il selvaggio invece, è diverso dal selvatico?
«Se la realtà è questa ci piaccia o no, dobbiamo guardarla da dentro, starla a sentire, scendere a patti con essa: se un’artista non prova a capire il presente, è morto.
Siamo convinti che la conoscenza non può che avvenire per esperienza diretta del reale, per sottrarsi alla menzogna mediatica e reimparare a ‘stare al mondo’. Ascoltare è un gesto di cura, ma anche di rischio: implica la possibilità di essere trasformati da ciò che si ascolta. Come artisti, “sensori” del nostro tempo, abbiamo accettato di accogliere l’imprevisto, fare spazio all’altro, umano o non umano, senza volerlo tradurre, né rappresentare, né addomesticare.
«Nell’attraversare le rovine delle periferie abbiamo percepito la contraddizione tra selvatico e selvaggio inteso come tensione, distanza tra ciò che è sicuro, quotidiano e ciò che è incerto, misterioso. Una natura non più pericolosa ma in pericolo. Anna Lowenhaupt Tsing, ne The Mushroom at the End of the World, ci mostra come anche nelle rovine del capitalismo la vita trovi vie inattese. Il fungo matsutake cresce solo nelle foreste disturbate, dove la mano umana ha già ferito il terreno. Non può essere coltivato, non si lascia addomesticare: è un essere selvaggio».
Cos’è un territorio, e perché va preservato il suolo, l’underland che diamo per scontato al quale dobbiamo, e sempre più dovremmo, porre attenzione con leggi specifiche, se vogliamo continuare a coltivare sui nostri suoli, bere acqua dalle falde,…?
«Un territorio non è solo uno spazio geografico: è un intreccio di relazioni. Preservare il suolo significa custodire la base vitale di tutte queste connessioni: ciò che ci nutre, ci disseta e ci sostiene. Bruce Chatwin ne Le vie dei canti, parla dei Walbiri, che si muovevano sulla terra “a passo leggero”, consapevoli che “meno prendevano dalla terra, meno dovevano restituirle”.
«La terra prima deve esistere come concetto mentale e poi la si deve cantare solo allora si può dire che esiste dunque esistere è essere percepito è sentire , ascoltare quello ci sta intorno. La terra prima deve esistere come concetto mentale, poi deve essere cantata: solo allora esiste davvero. In questa prospettiva, la pratica del camminare diventa oggi un atto di resistenza. Camminare significa scendere, vedere con i propri occhi, ascoltare ciò che accade sotto i nostri piedi. È un modo per sottrarsi alla velocità che ci separa dai luoghi e per riannodare il legame con ciò che è invisibile: le acque sotterranee, le radici, la storia del suolo. Esperienze come Napoli Assediata (2006) del gruppo Underword, il viaggio lungo il fiume Volturno con Oh, ah, si! Sul fiume fuori rotta e il percorso fino al Monte Somma con Tutto per esistere deve essere cantato in collaborazione con i Tramandars incarnano proprio questa idea: che solo attraversando e cantando i luoghi, solo guardandoli da vicino, possiamo comprendere il nostro tempo.
Preservare il territorio, allora, non significa solo proteggerlo con leggi , ma reimparare a percepirlo. Esistere è essere percepito, dice Chatwin. E percepire, oggi, significa camminare, ascoltare, raccontare. Significa restituire voce a quel suolo che, troppo spesso, abbiamo ridotto a superficie muta».
In una parola il futuro?
«Un Futuro senza volto».