“Il canto selvatico appartiene al richiamo della strolaga, all’aurora boreale e ai grandi silenzi di un territorio che si estende a nordovest del lago Superiore.”, inizia così questo libro di Sigurd Ferdinand Olson, Il canto selvatico (Piano B edizioni, €18, trad.it. Sara Reggiani).
Ed è una questione di percepire e constatare: due verbi all’infinito per comprendere (comprimere?) il senso dei rumori del mondo.
Olson, scrittore naturalista americano insignito nel 1974 della John Burroughs Medal – la più alta onorificenza per la letteratura ambientale – scava, è il caso di dirlo, nel fondo di ciò che chiamiamo, casa e, di più, da questo assunto fa discendere il legame forte che ci unisce, gli uni agli altri: “Ho udito il canto in molti luoghi (…) nella bruma serale della stagione delle migrazioni (…) l’ho colto all’alba quando la nebbia lasciava le baie (…). Ma questa musica la si può udire persino nel tremolio di un falò o nel picchiettio della pioggia”.
Ciò che aveva in mente questo scrittore – morto nel 1982 dopo una vita di lotte e articoli in difesa della natura selvaggia – sono i non-luoghi di mezzo dopo i venti del nord, la primavera silenziosa che scivola sulle valli, rivestendo di coltri soffici la superficie dei fiori, sui campi, le ombre, il sole, la neve all’imbrunire.
Ne Il canto selvaggio l’autore americano tenta la via del recupero delle mille lingue che popolano il mondo, a partire dai lemmi degli indiani Chippewa, i boschi sacri appartengono agli spiriti, dicevano, le leggende che si nutrivano della terra, la terra delle storie. Caccia su mappe che il tempo ha modificato, sotto le Pleiadi e la tormenta Olson ci porta con sé a riconoscere i segni del Vivente verso i quali – noi solo urbani – siamo divenuti ciechi: “un tordo significava la fine di molte cose, come delle tracce lasciate sulla neve dagli sci, dalla lepre, e dai fianchi dei cervi a riposo”, è così che uno stormo di strolaghe di Lac La Croix, il loro volo frattale, o l’odore di una foresta al mattino, divengono per l’autore passaggi obbligati nella ricerca, possibilmente, del proprio posto nel mondo: quella heimat interiore che sconta il tempo degli oggetti e della Storia, così come l’affido ai movimenti bassi del ventre umano, e della Terra.
E che bisogna (!) essere curiosi, ci dice in tralice Olson: bisogna tornare indietro per capire se era veramente resina quella che avevamo sentito, girarsi e rinnovare i passi, metafora concreta di una vita spesa il più possibile nel calarsi nel proprio tempo, scoprendone le ragioni, decodificando la superficie degli eventi.
Il testo si articola in quattro sezioni, inseguendo le stagioni, tutto è collegato, proprio come l’acqua del fiume alla pagaia e la pagaia al braccio dell’uomo in canoa poco prima delle rapide, di nuovo un concetto, di nuovo una metafora.
V’è sicuramente un lirismo che, a tratti, ad alcuni, potrebbe sembrare romantico, lo stesso l’autore nelle sue avventure incontra altre anime che, come lui, ripercorrono gli antichi sentieri (nei risvolti di copertina, si trova la mappa di alcuni dei percorsi che l’instancabile viaggiatore fece.
Impariamo termini nuovi, parole, leggendo Il canto selvatico e, di fondo, l’attenzione che serve per accorgersi di vivere, non anestetizzati ma, invece, immersi in quel rituale d’argento sotto il quale danziamo, insieme ai campi di grano, la musica collettiva che ci unisce tutti, muri di pietra, querce, silenzi, lupi grigi.
Tutti i viventi di questo pianeta, che va protetto come un suolo unico – le mani sulla corteccia, i ghiacciai che provengono da un’altra era, un altro pianeta, il riverbero del tremolio nel sottobosco, bande gialle striate di verde, ‘aurora borealis’, il vento sugli alberi, la sua voce, gli scoiattoli sul ramo – siamo una comunità ecologica, un unico suono collettivo.