“Non era stato sempre così, con la città e con i fantasmi. Molti, molti giorni prima che gli abitanti avessero smesso di contare i giorni, l’albero era divampato in un incendio e la città con esso. Il fuoco era partito da un’area periferica, dai rami che si protendevano a occidente, poi si era allargato a inglobare interi settori scendendo verso il fusto. Le fiamme alzavano un velo scuro sopra il cielo, perciò in cielo non c’erano più giorno né notte”.
Inizia con un albero, Zero e il cartografo, e una città e un cerchio di fiamme, un uovo azzurro dorato e la necessità di morire Non tutto il male. Cronache della terra inabitabile (effequ, euro 17) di Andrea Cassini – traduttore per Mondadori, collaboratore di L’Indiscreto, narratore di fiction fantastica per Moscabianca edizioni, tra gli autori dell’antologia ecologista Tina. Storie della grande estinzione (Aguaplano, 2020) – siamo fantasmi, niente altro che vapori estinti sul pianeta, evanescenze, ricordi malati, sogni.
Cassini si infila dentro il dibattito tra cosa sia vivere, e quanto valga – oggi – la sopravvivenza della specie per la nostra società malata di immortalità.
Su cosa sia un albero, una radice urticante, un luogo palindromo che connetta il sopra e il sotto, il cielo e le rocce ime, giù, ancora più giù verso il centro della Terra, Cassini ci porta a indagare il rapporto malato tra uomo e natura, attraverso un romanzo onirico, post-distopico, visto che ormai dopo la pandemia globale niente più è al passo con le narrazioni del presente.
Con un salto di specie letteraria, passando a una seconda parte immediata che ribalta il personaggio a una prima persona, immediata, l’autore di Non tutto il male si prefigge sin dall’inizio di nuocere al lettore mettendogli di fronte una verità scabra quanto evidente: il tempo; quanto è il tempo che ci rimane da vivere, ora, qui, mentre insieme a noi passeggiano sugli alberi milioni di corpi striscianti, l’uomo un virus egli stesso sul pianeta, la “teoria della formica”, siamo piccoli di fronte ai giganti delle foreste e pure quanto invasivi?
La narrazione porta il dottor Zero sulla strada delle fiamme, fiamme ovunque, la nuova fenice da cui risorgerà Tula, la città-archetipo, abitata da umani, spettri, Tula intesa come fuoriuscita forse dall’Antropocene, emblema delle nuove città-albero di cui pure si sta parlando molto, in questi anni, come modello abitativo del futuro, a partire dai rendering delle città-foresta di Boeri sino alla rimodulazione stessa del concetto urbano, che dovremo rivedere necessariamente dopo la pandemia.
Se infatti sino a poco tempo fa, secondo le stime dell’ONU 2/3 della popolazione mondiale entro il 2050 (un’urbanizzazione pronta ad accogliere ormai 10 miliardi di persone sul pianeta, qui una sintesi del documento ndr) si sarebbe spostato a vivere in città, non è detto che questo trend ora – dopo un anno dal coronavirus – possa rallentare, quantomeno.
Sempre più persone si rendono conto della necessità di una vita a più stretto contatto con l’ambiente, infatti, e di un “ritorno alla campagna” che probabilmente muterà il nostro criterio di abitare, dunque di habitat.
Cassini racconta l’eutanasia di un’intera specie, la nostra, il nitrito di sodio nelle vene, quanto avremo immesso del nostro formicolio alacre, quanta energia avremo dissipato, e quanto distrutto nel nostro riempire i buchi, crateri d’illusione: “Quando guardavo il mio palazzo da fuori, dalla strada, non era più il mio palazzo. Le pareti cigolavano, e sembrava ondeggiare”, l’autore ci distoglie (a volte, troppo, a volte forse il lettore gradirebbe essere portato per mano di più in questo post-mondo immaginario fatto di fumi e vapori, fantasmi e calore) attraverso uno stile scarno, a-verboso, ai limiti del fantastico italiano, fiabesco per fiato bollente, nell’alternata vicenda dei capitoli si incapsula la vicenda di Zero narrata da lui medesimo e la vicenda di Zero narrata dal meta-narratore onnisciente, quasi come se persino la nostra vita avesse un doppio mondo: un mondo esterno e uno interno, lo spazio intimo della coscienza allucinatoria, e il mondo del corpo, i fantasmi e il peso degli uomini, l’inconsistente invisibile agli occhi e la cenere delle esistenze, colori, anime, crocicchi e gallerie che nel libro vengono risolti dal Cartografo, personaggio mitico, Minotauro dei sotterranei urbani.
Foto di Anna Kester da Pexels
C’è un tempo dell’incendio e un tempo dopo l’incendio in questo romanzo atipico, per certi versi utopico. C’è un momento preciso in cui il girare delle lancette esprime un mondo pre, e un fuoco che ha divampato e infranto, il mondo post.
Così i rimandi alla contemporaneità si uniscono e confondono, ci sono uomini senza fiato e uomini senza volto, le nostre scelte, tutti i bivi falliti, i suoni di una vita alla deriva. Voci, asfalto, oggetti che cambiano forma, Non tutto il male è una discesa negli inferi del Ventre della Balena. Una prova-labirinto, un cammino mistico.
Zero uccide su commessa, uomini senza fantasma, ma molte ombre: i sogni di Zero sono teche di vetro dalle quali si vede il mondo-prisma nei suoi risvolti più impensati.
Non è perfetto questo romanzo-ipotesi, questa fiaba-arcana, smerigliata, a pezzi di vetro, pure la dimostrazione che esista uno sforzo, la sarabanda delle illusioni, il terzo livello della parola, la narrazione emblema, l’autore che si provoca e mette alla prova, e alla gogna, senza pensare che esista un giusto e uno sbagliato. Quanto, piuttosto, se proprio qualcosa nelle esistenze vada definito, un continuo andare avanti e indietro. Nei sogni come nella vita. La cosa importante, pare, è non rimanere incastrati, dentro l’inception di sé, nel più grande racconto del mondo. L’uomo appena una recita, formula accennata del mai esistito, appena una cancellatura di un mondo in fiamme.