Leggere L’unico mondo che abbiamo di Wendell Berry (Piano B edizioni, Euro 14).
Leggerlo come se fosse una carta geografica del presente. Scorrere tra i 10 saggi di questo romanziere, saggista, poeta, ambientalista classe 1934, definito da molti una delle voci più critiche e influenti dell’Occidente.
Leggere perché non abbiamo più tempo. E abbiamo smesso di stare male. La rimozione del dolore della cultura occidentale. Allontanare la morte, il senso di smarrimento. Per fare finta di essere immortali. Lontano dal corso elementare delle particelle. Dalla terra, l’unico mondo che abbiamo. L’unica casa. Il “dove” abitiamo. Eppure.
Tra gli scritti di Berry c’è spazio per la disincarnazione del pensiero, l’ossessione dell’uomo moderno, apparentemente liberato dal giogo del lavoro, sostituito dalle macchine. Ma di Prometeo senza più fuoco, cosa rimane?, sembra volerci dire Berry. Confusione, giudizi sommari, come questi. Superficie delle cose, degli oggetti che continuiamo a comprare anche se la plastica sta affogando gli oceani (e non basta Nike a riciclare per poi vendere 1 milione di scarpe ocean plastic-made).
Dov’è finita la sensibilità che ci ha contraddistinto per secoli, sembra chiederci questo libro-non libro di Berry.
Dove le rondini e il cielo? Quisquilie. Didascalie del presente. Al massimo buone per qualche post semi-romantico sui nostri profili social.
Ci manca la materia. La concretezza delle azioni. Anche dopo gli attentati (l’autore parla di Boston 2013) la nostra reazione è la rimozione. Andare avanti come se nulla fosse successo. Ma come fai a dirlo a chi rimane? A chi ha perso un amico, un figlio, una donna?
Dove siamo finiti?
Ma c’è anche un’analisi lucida nella raccolta di saggi di Berry di cosa può essere accaduto in America, un’ulteriore chiave di lettura dell’elezione di Trump a Presidente degli Usa. I minatori del Kentucky. Il concetto di vita umana ridotta nel presente tecnologico a “obsolescenza”, la scalata dei partiti politici anti-mercato non più appannaggio delle sinistre mondiali ormai appannate, impantanate.
E poi la sostituzione della realtà, il “filtraggio” operato dai device, dalle fake news, sulle nostre coscienze/conoscenze. Il passato riscritto a uso e consumo della classe non più agiata, la crisi (ma ormai di cosa?) il popolo, noi, tutti. Il mondo in pasto all’efficienza, in cui l’economia prospera e l’accumulazione primitiva non è più in discussione. I nativi americani sopravvissuti ridotti nelle riserve, il colonialismo, il post-colonialismo, ormai in circolo nel Sistema (direbbe il giovane Marx, in questi giorni al cinema ndr).
Preoccupato dalla deriva sedentaria, dall’attenzione calante, questo vecchio scaltro “filosofo contadino” potrebbe sembrare un barboso vecchietto in odore di predica da saggio, in verità chi vuole interpretarlo così lo può fare. E’ sempre più facile liquidare. Non soffermarsi. I personaggi di Berry sono contadini, pescatori, forse eroi in via d’estinzione, retaggio di un mondo traslucido che i nostri figli rischiano di non vedere. Anche se continuiamo a mettere la testa sottoterra. Campagna e corsi d’acqua inquinati: in Kentucky, il Water Quality Branch prevede il lavoro di 9 biologi su un territorio di 92.000 miglia: un biologo ogni 10.000 miglia. Questo è quanto fa l’uomo per verificare il territorio su cui nasce, vive e prospera (a completo svantaggio degli altri viventi). Siamo un’umanità di struzzi. Eppure proprio da qui parte la riflessione propositiva:
“Tutti noi viventi dobbiamo le nostre vite alla nostra connessione con la terra” – si legge nel capitolo Salvare la terra e i suoi abitanti grazie alle economie locali – “Sto parlando della connessione che instauriamo economicamente, col lavoro, col vivere, col guadagnarsi il pane”. Questo porta alla conseguenza che “Il mezzo più efficace per un’auto-determinazione locale resta comunque un’economia ben sviluppata e basata sull’utilizzo e la protezione delle risorse locali, incluse l’intelligenza e la competenza umana. Le risorse locali (…) diventano ben più preziose quando sono sviluppate, prodotte, lavorate e commercializzate da – e soprattutto per – le comunità locali”.
Un ribaltamento dell’anti-globalizzazione dei Trump di tutte le latitudini, i populismi e gli hater di tutto il mondo si sono uniti. Togliendo alle sinistre il primato sulla difesa delle identità, degli individui auto-determinati che fanno il popolo.
Quello stesso popolo che oggi affida il presente, e il futuro, alla politica. Deresponsabilizzandosi. Di qui invece i 12 punti sulla responsabilità che propone l’autore de L’unico mondo che abbiamo.
Il richiamo di Berry è semplice, smettere la tecnica dello struzzo. Cambiamento climatico. Fine del lavoro. Miniere a cielo aperto. “Occupandoci davvero di questi grandi problemi, scrive il green writer, ci accorgeremo che le soluzioni iniziano e finiscono con noi” (rallentare e poi arrestare l’economia dei combustibili fossili, da quanto tempo lo diciamo? E l’America che fa? E l’Europa?).
Leggere la raccolta di saggi di Wendell Berry. Leggerne almeno uno. Conversazioni sulla foresta, la fattoria di alberi. Perché l’aria in città sappiamo com’è. Così come il cibo che mangiamo, senza nemmeno dover scomodare Feuerbach. Così come sappiamo come ci sentiamo appena restiamo sconnessi dalla Rete, perduti appena all’inizio ma poi?
“Nella storia d’America, fin dall’assalto dei coloni del Vecchio Continente, non abbiamo un solo esempio di un’impresa economica ecologicamente e socialmente sostenibile”. Che fine sta facendo l’agricoltura? E la silvicoltura?
Berry ci parla della libertà. La mente aperta. Non più soffocata. Connessa per cosa. A cosa?
La realtà, risponde dai suoi primi 84 anni. Quella sì. Quello è l’altro unico luogo che abbiamo. Il presente. Poiché non esiste un libro sul futuro, possiamo solo scrivere il nostro oggi.
In ogni caso, chiude l’autore “Non siate dunque in ansia per il domani”, è sicuramente una perdita di tempo.
Ma, chiosa infine. Non rimandate. Il Tempo cambia, e cambierà. Nel frattempo, scegliete. Ogni giorno. Agite. Ogni scelta diventerà vita.
Mentre attorno a noi gli uccelli continuano a cantare, dai loro nidi, da questa ennesima altra primavera.