Paolo Andreoni ha 29 anni, e
suona con la Bussuku bang (fino a pochi giorni fa, Bussuku band ndr) «siamo legati musicalmente, come Bob Marley
and the Wailers». In questo album La caduta
delle città del nord – in uscita il 15 ottobre su MySpace – il titolo è preso da un articolo di giornale che
ipotizzava l’attacco alle città del nord dell’Iraq, dopo l’11 settembre
(l’attacco alle Torri Gemelle ndr)». Una frase che «parla degli
squilibri e dell’assetto geo-politico del mondo. Il cd non racconta
precisamente questo, ovvero non c’è un pezzo che parla precisamente del titolo,
né una tracklist, ma ci sono testi in cui si parla di guerra o della caduta
degli stati d’animo. Lascia aperto un a specie di iato in cui si può
“immaginare”». «Il prossimo album invece vorrei
che si chiamasse Cliente successivo: un concept album con una
costruzione narrativa sul mercato, dimensione che unisce e divide, attraverso
il quale si capisce la realtà contemporanea, in cui gli analisti economici
supportano la (finta) necessità di un mercato globale, in cui girano sempre più
soldi e che però, essendo – per sua natura – così grande, ha difficoltà a
stabilire regole valide per tutti (e infatti nasconde posizioni di dominio,
cerca di coprire i suoi interessi, sviluppa una “Sindrome cinese” nei nostri
industriali che prima delocalizzano in quei paesi la manodopera perché costa
meno e poi si terrorizzano di un mercato che vale 5 miliardi di persone, in cui
la concorrenza cinese vince perché la logica del capitalismo è basata sul gioco
al ribasso, dove predominano solo i propri interessi).
Mi hanno ispirato molti libri di
Noam Chomsky, che compiono un’analisi dell’attuale assetto politico ed
economico del mondo, in cui spesso i rapporti fra nazioni sono il risultato di
accordi tra lobby. Dove il potere politico è un risvolto, i cosiddetti
“potentati economici”».
guarda la video-intervista
«La musica è anche informazione,
non ha perso di portata, ma i gruppi che riescono a parlare dei propri tempi
sono pochi: i Radiohead riescono in un album a rappresentare i nostri tempi, i
suoni sono quelli del presente-futuro». Questo perché «la più grande quantità
di brani è dettata dal mercato TV, un sistema fatto apposta per bruciare tutto
e subito. Il contrario di quello che hanno fatto i grandi cantautori come De
André, che hanno una portata storica e letteraria, artisti che riuscivano a
tratteggiare uno spaccato reale della società e persino a dare significati». La
musica italiana di oggi «ha paura di avere una morale, spesso i cantautori
dicono “non ho messaggi da dare”. Attraverso i miei testi, cerco di portare a
spasso le idee: cerco di dire poco, però completo; di guardarmi attorno,
trovando parole precise, dove l’aggettivo è quello e non un altro. Se vuoi,
l’esigenza di avere un animo civile».
La musica descrive il mondo? «La
società di oggi è multiforme, e quindi meno leggibile, è più difficile avere un
impatto sociale “vero” – come fu per Storia di un impiegato durante le
lotte degli anni 70 (capolavoro che nasceva dalla volontà di interrogarsi sulla
società)».
Come si lavora nella
progettazione auto-prodotta? «Di solito si prova la melodia con la chitarra e
poi si lavora con le atmosfere, fino a concepire l’arrangiamento e i suoni più
adatti. Dall’unità base, il lavoro si sviluppa per scrematura, fino a tradurre
concetti». Come cantautore «mi preoccupo solo di trovare gli accordi base per
la melodia, poi si lavora tutti insieme: ed è un’aggiunta importante visto che,
con le coriste, siamo in 7 (a volte 9)». Una «matrice acustica che riesce a
dare una varietà di colori e suoni molto differenziati. Lavoriamo per
rispondenza tra testo e arrangiamento, rispettando al massimo queste diversità
e, laddove il testo sia più chiuso, rarefatto, la musica si “apre”…». La
dinamica degli opposti.
Il live. «Per noi è una strategia
musicale, è il momento in cui la comunicazione è massima tra te e il
pubblico.Il progetto di lavorare con una band è qui: siamo a un punto di
tecnologia per cui potresti non avere strumenti, volendo potresti fare un disco
senza musicisti. La potenza di 9 persone è un’altra cosa. La componente umana è
fondamentale. In radio, a volte vanno le musiche facili. Io preferisco i
Radiohead, che nei live restituiscono la bellezza del disco e prove di classe
come la versione di Over the rainbow di Israel Kamakawiwo'ole, con il
suono sporco e vero, diretto, roots».
La Rete «ho messo online il brano
Evelin, sembra che parli in inglese ma uso parole inventate!». La
canzone (non)racconta «la storia di una donna, la sua solitudine, in una città
straniera: New York». E «due giorni fa mi ha scritto una radio russa per
inserirla nella tracklist della settimana. La rete è un mondo parallelo e
invisibile, libero perché accessibile».
«La musica crea immagini, rende
visibile una parte del mondo: Nel paradiso dei calzini di Vinicio
Capossela lo racconta in modo auto-referenziale; Fabbricando case di
Rino Gaetano è un testo in grado di parlare della speculazione edilizia in modo
attuale, ancora oggi».
Ma cosa è il tempo? «Immagina che
il mondo sia un respiro, lungo 3-5 anni. Questo respiro quando cambia, cambia
il tempo. L’artista cerca di cogliere e descrivere. Ma la musica è traditrice,
e sì e no ha un tempo!
Si dice che la forma della musica
sia il suo contenuto, un po’ la disancora rispetto ai tempi in cui viviamo. Mi
chiedo se Nel blu dipinto di blu, oggi, sarebbe il grande pezzo che è
stato 50 anni fa?».
«L’artista ha un doppio onere:
raccontare qualcosa ora e farlo con una melodia che possa far presa anche fra
50 anni. La vera domanda che dovrebbe porsi ogni artista è, “Quale è il suono
dei nostri tempi”?». Ora, ma non solo qui…