Vita e morte sul pianeta Terra

Due romanzi raccontano, in modo diverso, da un lato la questione dei linguaggi nella relazione uomo|natura, dall’altro lato di un’umanità sempre più alle prese con la (propria) estinzione e il surriscaldamento globale.

Il vasto territorio di Simón López Trujillo (Mercurio books, trad.it. Nunzia De Palma, 15,00 ) parte da Baruch Spinoza, siamo figli e figlie del sub specie aeternitatis ,la lunga catena di linguaggi che porta dalla mente di Dio – o chi per L*i – a un’umanità che deve fare i conti con gli altri, l’altro, di cui se da un lato non possiamo fare a meno, dall’altro è presenza incombente di un differente, uno scarto, l’incomprensione: se non parlo il linguaggio dei funghi come faccio a capirli, veramente? Così la radura di un bosco diviene prospettiva in questo agile romanzo del giovane autore cileno (vincitore del premio Roberto Bolaño nel 2018 proprio con questo romanzo).
I personaggi di Trujillo – Pedro il Vasto, Giovanna, il DNA, l’acqua del sottobosco, Catalina, Baltasar, Patricio – scontano di Bolaño le lievi pennellate dei romanzi brevi del grande scrittore “selvaggio” padre dell’infrarealismo – lo stesso Bolaño – così la narrazione procede per sbalzi di punti di vista che si moltiplicano, le descrizioni si fanno a tratti scientifiche: “Il fungo Ganoderma lucidum è un basidiomiceto saprofito che compare comunemente come agente di deterioramento del legno, ma che presenta una serie di impieghi farmacologici molto utili”; i bambini disegnano la vita sul pianeta Terra, i colori sporcano e simulano, tratteggiano la pluralità di un mondo che, spesso, i grandi fanno finta di non vedere, non più stupiti, non più in grado di provare l’empatia, emozionarsi, l’intelligenza superiore non è più in grado di provare sentimenti totali, ci dice l’autore del ‘vasto territorio’ nato a Santiago del Cile nel 1994.
Lungo tutta la linea temporale multipla (scomposto nel tempo degli alberi, il tempo degli umani, il tempo delle ife sotterranee, etc) scorrono le intersezioni a piè di pagina, come note di un metatesto, parafrasi e periodi brevi, per un linguaggio semplice e complesso, come la vita sul pianeta Terra, l’ennesimo tentativo si direbbe di ridurre il molteplice all’Uno e l’uno al Molteplice, in quell’alternanza che del ‘vasto territorio’ sul quale nasciamo, cresciamo, moriamo, l’unica verità è che nessuno conosce niente, nulla si comprende della vita, tutto si trasforma, nel sé, nell’altro diverso da noi: “E’ la continuazione indefinita dell’esistenza. Ogni corpo ha bisogno di altri corpi per morire e rigenerarsi. La sua vastità implica unire le teste, inseguire l’indocile mormorio che porta il vento a casa, quel segreto corpo, radice d’acqua, che estirpa la lingua dalla sua gabbia e scappa nelle ceneri mentre i boschi si trasferiscono in un altro universo“. V’è, insomma, poesia e persino filosofia, dentro e attorno a noi, checché ne dicano populismi nostalgici o negazionisti del clima.

Presenza della morte di C.F. Ramuz (Feltrinelli, traduzione e cura di Maria Nadotti, euro 12,00) riporta alla luce una perla dimenticata, scritto nel 1922 da un Ramuz ormai 44enne, nel pieno della sua maturità, lo scrittore svizzero delineò con oltre 100 anni di anticipo il futuro di surriscaldamento globale con cui l’umanità si trova oggi a fare i conti, dopo un secolo di inquinamento, dalla nascita delle industrie, la fine dell’Ottocento, i cieli di Londra ispessiti dalla coltre di smog, alle nostre metropoli intasate di auto, in una proiezione che prevede arriveremo, tra non molto, a una popolazione mondiale oltre i 10 miliardi di persone.
“Allora vennero le grandi parole; il grande messaggio fu inviato da un continente all’altro di là dall’oceano. La grande notizia camminò tutta la notte sopra le acque per mezzo di domande e risposte. Eppure, nulla fu inteso” – è l’incipit ‘bruciante’, è proprio il caso di dire, con cui inizia la distopia oramai avverata di Presenza della morte, e se da un lato non si può che evidenziare le similitudini con cui il nostro presente si confronta, dall’altro i richiami all’inazione della politica, la visione di Ramuz non è né apocalittica né sminuente, è, contingente, precisa, tratteggia un arco narrativo – il nostro, quello dell’umanità e dei mammiferi superiori che, purtroppo, ci tireremo dietro nell’estinzione della specie – che parte sottotraccia, invisibile, come il pulviscolo nell’aria. Non ci accorgiamo che stiamo andando incontro alla fine perché non siamo in grado di cogliere l’invisibile – ci dice questo scrittore, poeta, morto nel 1947 – e il suo monito riecheggia nella pagine del presente; con uno stile scabro tutto all’indicativo presente (la presenza dell’immanente, il qui, l’ora scoccata di cui Ramuz vuole farci partecipi) rende la narrazione adattiva, il pronome “noi” con cui il romanzo procede ha la doppia funzione di mettere in relazione gli umani, e di scalfirne al contempo l’individualismo, male assoluto del capitalismo, che dilaga e acceca: non siamo in grado di guardare alla sconfitta, ci giriamo dall’altra parte, meschini e presi dalle nostre piccole esistenze, ci racconta Ramuz, non vogliamo vedere (adolescenti, alle prese, al massimo con l’immagine di noi da dare in pasto al mondo, ai social diremmo oggi): è la “presenza della morte”, a volerla dire con Freud “la pulsione di morte” che scandisce le vite dei personaggi-tutto di Ramuz, alle prese con un’esistenza frammentata e atomica, quantistica diremmo noi nell’epoca post-nucleare (?).
“Nel 2200…2300, Be’ ci penseremo domani, ne ho abbastanza per oggi” – oracolare, profetico, in questo suo romanzo Ramuz ci descrive con perspicacia i meccanismi psicologici, la nostra resistenza al cambiamento, pur in presenza di incendi, siccità, tempeste ai quattro angoli del pianeta. Ma che importa, ci smaschera, ciò che accade in Bretagna, a New York, mentre Bresson, il brusio degli uccelli, “39° oggi, 40° domani, 41°…50°…100°… Diavolo!”, il nostro mondo è in fiamme me non vogliamo vederlo. Perché? “Tanto meglio, se salta tutto in aria” fa rispondere Ramuz a uno dei suoi personaggi. Ed è così semplice, forse. Siamo stanchi, la vita ci ha piegato, così tanto con i suoi no e la sua caduta degli déi, delle illusioni cui ci eravamo abituati, che forse – e questo lo svelamento, il re è nudo – forse è questo scatto improvviso, questo rendersi conto della strada persa, della vita alle spalle, di quanto stiamo dissipando a causa della nostra indifferenza che, un giorno, forse, recupereremo agli sbagli fatti. Forse sarà proprio perché le montagne vengono giù, che saremo costretti a guardare alla vita sulla Terra ridotta, ormai, a un inferno caldo. Prima che sia troppo tardi, dobbiamo imparare di nuovo a innamorarci della vita, solo così ci potremo salvare.