Paradisi e pietre


Si inizia con un coltello e si arriva sulle strade della Florida, la protagonista del romanzo di Laura van den Berg, Paradiso terrestre (Mercurio, trad.it. Marta Olivi, € 18,00) osserva il mondo che si sgretola o forse è lei che si sta sgretolando, il mondo di lei e il mondo fuori, il mondo dentro di lei è il mondo fuori.
E sarà perché la protagonista di van den Berg fa la ghost writer o, forse, perché Etta James canta “Stormy weather” che, leggendo le 200 pagine di questo paradiso, sentiamo lo sgretolamento friabile del terriccio sotto di noi, i portali cadono in frantumi, e la vita non è il meglio che pensavamo. Tutto fallisce, a partire da noi. L’umanità che racconta van den Berg – senior lecturer in Fiction alla Harvard University – è sotto l’acqua dei temporali, il tempo inclemente è ovunque, non c’è più spazio che per le mattine in cui i gatti fanno i gargoyle alla città, è un tempo devastato e swing, l’atmosfera danzante di un mondo sognato, estinto: è tutto uguale nel paradiso in Terra, tutto irsuto, come i peli della lupa gigante che cresce nella famiglia di origine della protagonista (senza nome? Chi è l’io narrante del romanzo?), e pure non c’è più origine per nessuno, tutto è scomparso, pare, nascosto, celato dalle coltri di nebbia che hanno, ormai, indebolito le resistenze degli umani, è una società lassista quella descritta da van den Berg – che ha ricevuto una Guggenheim Fellowship e vinto, tra gli altri, il PEN/O Henry Prize – non c’è speranza, l’autrice utilizza un indiretto commemorativo, uno stile a metà fra l’amichevole e il memoir fittizio per descrivere i giorni, quotidiani, “niente di che” diremmo noi, e invece la Florida è specchio di un clima avverso, le cavallette sono insetticida-resistenti, e i padri hanno malattie polmonari (sì, c’è anche la pandemia): tutto si trasforma, è il fantasma di una modernità – la nostra – arrivata all’ultimo giro di valzer, mentre la fatidica band sulla nave che affonda continua a suonare, in the mood. Il paesaggio paradisiaco è trasformato, le autostrade ingombre di macchine, le aziende producono – è stato il trionfo del mercato e del modello taylorista applicato – si alternano alla tecnologia, i visori hanno sostituito i “veri” paradisi che non vedremo più, perché non potremo viaggiare più, il clima non ce lo permetterà, e nemmeno la crisi economica, che si abbatte come un maremoto sull’edificio di carta di quella che chiamiamo vita di tutti i giorni in cui niente è come sembra, nemmeno i ricordi (la nonna spinta giù dalle scale dal nonno, storie di femminicidio non così lontane dal nostro presente). Rimane bere fino allo sfinimento? Essere internati perché “asociali”? Cosa ci priva della nostra sostanza umana?, sembra chiederci infine van den Berg – questo il suo primo libro tradotto in Italia – ciò che i Duemila e i decenni successivi restituiscono sono onde di un mare che prende sempre più di quanto dà: è “la voglia di distruggere” questo Paradiso terrestre, in fin dei conti è questo che volevamo, dimostrarci che siamo (come il dio che tutto può) in grado di radere al suolo la bellezza dei “bei tempi andati”. Be’ forse, ci stiamo riuscendo.

Esce domani, invece, il nuovo romanzo di Andri Snær Magnason, La pietra del gigante (Iperborea, nella sempre ottima traduzione di Silvia Cosimini, € 17,00). Un libro-grafema, piccoli racconti che si alternano sulle lande d’Islanda, distese di lava e ghiaccio: un bombo diviene così il pretesto per il ricordo di un bambino e un padre, sotto la pioggia radioattiva; mentre un logo (il mulinello) diviene simbolo e sintomo di una società in agguato, la nostra capitalista che mette tutti in riga, tutto in ordine, le classi sociali esistono ancora anche nel futuro, ci si ritrova così a esser scambiati geni, il successo tutto frutto di un equivoco; ci sono, poi, fari e ghiacciai nelle storie vie en rose di Magnason, classe 1973, scrittore, intellettuale, poeta, performer, attivista ambientale a fianco della cantante Björk, si occupa da anni di divulgazione scientifica e temi legati alla difesa dell’ambiente: “il ghiacciaio era l’amore in un cerchio perfetto” scrive l’autore de Il tempo dell’acqua (uscito sempre per i tipo di Iperborea), premio Terzani nel 2021; il mondo di ieri è indubbio, cos’è allora che striscia sotterraneo, oggi, cosa ci rende così eterei ormai? Gli 0 e 1, le parole – sole nuvola monte cascata uccello acqua fuoco – e se Helgoland, spoglia isola del mare del Nord, ha visto nascere la fisica quantistica dalla geniale mente di Heisenberg, l’autore de La pietra del gigante ci porta invece a Legoland, “la porta dell’infanzia” è così che conosciamo il gruppo di amici che abbiamo avuto, tutti noi, in quell’età bianca in cui ogni cosa è ancora realizzabile, il tempo d’un’illusione verde, adolescente ed effimera, prima del tempo adulto, la caduta. Scegliete la vita. Ma quale?
La pietra del gigante che dà il titolo alla raccolta è una storia di ricordi e tempo, il sublime fascino di strade che si innervano tra le curve del “non più”, è il tempo delle estati che cambiano la vita, di automobili (a proposito, ricordate qual è la prima macchina che avete guidato appena presa la patente?) e lastricate pavimentazioni, lavori, cantieri, operai, il protagonista si accorge del tempo mentre le pietre spaccano vetri, nessuno sa cosa succederà dopo…se esiste, un prima e un dopo, o forse c’è spazio solo, nella vita, per gli ultimi due racconti, quei ‘Wild Boys’ che Magnason scrive con uno stile frammentato ed esploso, e il futuro che chiude la raccolta, è un nonno che ricorda e, penso, potremmo essere noi a scrivere questo racconto perché, Quanti anni avrai – tu – nel 2093?