“Le persone: al via il Festival di Emergency con un’intervista a Ferdinando Cotugno

Si terrà dal 6 all’8 settembre, a Reggio Emilia, il festival di Emergency 2024, il tema scelto per questa edizione è “Le persone”, questa sarà un’edizione speciale per almeno due ragioni: l’anniversario della morte di Gino Strada – il 13 agosto – e i 30 anni di Emergency (qui il programma completo in .pdf, mentre qui il link per prenotare gli eventi).
Molti gli incontri dedicati alla relazione con l’altro – tema estremamente contemporaneo – e dalle varie interpretazioni: dai migranti del clima a chi fugge dalle guerre; inoltre, il tema dell’alterità verrà affrontato anche come ciò che reputiamo “altro da sé” che, per Emergency, è sinonimo di relazione e confronto, non di conflitto come invece sta accadendo negli ultimi tempi nella nostra cosiddetta “società civile” (e le sue derive di nuovi populismi e vecchi razzismi).
Il festival di Emergency invece avrà come focus il concetto di “altro da noi” (un NOI che comprende gli esseri viventi del pianeta fra i quali c’è sicuramente l’essere umano ma che comprende, anche, i regni animale e minerale, e il mondo animale) ne parliamo con uno degli ospiti, Ferdinando Cotugno – giornalista ambientale, penna tra le più autorevoli sui temi del clima e dell’ambiente che per Domani cura la newsletter “Areale”, ha un podcast sui boschi italiani, Ecotoni; ha pubblicato Italian Wood (Mondadori, 2020) e Primavera ambientale (Il Margine, 2022).

Partiamo dai suoi interventi al festival di Emergency, il primo è sabato 7 alle 11:45 “Per parlare di persone in lotta per il futuro”…
«Dal punto di vista socio-politico, a mio avviso, il grande problema oggi è che la transizione in atto è troppo lenta rispetto ai cambiamenti climatici. Non è neanche una questione relativa alla domanda “Cosa fare” perché quella domanda, nel tempo, è entrata nei gangli della società. Il punto saranno i tempi entro i quali si realizzerà, o meno, questa transizione: riusciremo a completare la transizione entro 30 anni? Entro 60? O 90? Gli scenari saranno diversi. Perché un conto è se riusciremo a stare entro i livelli che ci dicono gli scienziati, un altro se invece avverrà in un secolo, con ritmi che non sono quelli della Natura (degli eventi estremi, della siccità, del caldo,… ndr).

Sempre il sabato il secondo appuntamento sarà alle 16.30, “La salute del Pianeta dipende da noi”?
«Il problema è che l’attuazione dei cambiamenti necessari per adattarsi al cambiamento climatico non li sta dettando l’agenda politica ma l’economia, ricordo Rex Tillerson (amministratore delegato della compagnia petrolifera ExxonMobil, diventato Segretario di Stato degli Stati Uniti durante la presidenza Trump) che, rispetto alla necessità di svincolarsi dalle fossili, rispose: «Voi ci state veramente chiedendo di perdere soldi?». Il punto è questo, allora, e se gli dovessi rispondere oggi direi: «Un po’ sì». Vogliamo che la nostra specie sopravviva o che il fossile continui a essere estratto e venduto? E purtroppo stiamo assistendo a questo, lo vediamo con l’energia elettrica, per esempio, che al momento è un’aggiunta, si somma al fossile che continua a inquinare e sporcare e non mostra nessun segnale di rallentamento: la nostra continua a essere un’economia carnivora, anche se esiste un’emergenza che è pubblica, ambientale, sanitaria, alimentare,… che si sta ancora una volta trattando solo con logiche economiche, che hanno tempi diversi rispetto alla termodinamica, alla fisica, al pianeta insomma».

In che senso c’entrano le persone?
«Perché la transizione dovrà essere messe in atto, allo stesso modo, nei paesi democratici e in quelli non democratici. Sono modelli diversi, e il processo andrebbe coordinato, solo che è difficile. Gli stessi paesi democratici, che sono quelli che devono de-carbonizzare prima, per responsabilità precedente, non si stanno tutti muovendo alla stessa velocità (dell’emergenza). Se scattassimo una fotografia di quel che è stato fatto finora – penso all’Italia ma anche all’Europa o agli Stati Uniti – è poco rispetto alla questione climatica anche perché i governi sanno che le persone hanno ancora “paura” della transizione: soprattutto quando il cambiamento viene percepito come “brusco” o “calato dall’alto”. Lo vediamo in questi giorni di campagna per le elezioni americane (del 5 novembre ndr) quanto sia difficile parlare di “emergenza climatica”: la stessa Harris se ne sta tendendo lontano, perché in qualche modo il clima viene ancora percepito come tema “tossico” da una parte dell’elettorato: tossico in termini di costi, giustizia sociale,… le persone sanno che, alla fine, tanto, i costi verranno scaricati su di loro, sui cittadini. Ecco allora che un problema di natura ambientale diventa di psicologia sociale, a cui dovremmo rispondere collettivamente e, invece, questo accade in modo lento: tendiamo a metterlo al fondo delle nostre priorità, lo releghiamo a un discorso strettamente socio-economico, in paesi in cui la mobilità sociale è ferma la crescita economica è, e rimane, l’imperativo mentre sale sempre di più la diseguaglianza. Il cambio di passo ci sarà quando, e se, il pubblico deciderà di investire davvero in termini di giustizia sociale, reddito, costi; del resto, stiamo parlando di come staranno le persone, come staremo tutti noi di fronte ai cambiamenti, che potranno anche essere brutali».

Cosa riguarda questo cambiamento che ci viene richiesto dall’emergenza climatica e in che modo coinvolge le nostre vite, perché ci dovrebbe riguardare?
«Perché riguarda come ci sposteremo, mangeremo, come ci procureremo l’elettricità… questo cambiamento ha dei costi e determinerà sconfitti, come li tuteliamo? Il vero tema oggi è che in molti sono delusi dalla politica, negli elettori c’è grande diffidenza e questo crea margini per speculare (vedi i populismi) su alcune soluzioni, magari parziali, che vengono strumentalizzate come accade per le rinnovabili, è successo in Germania con le pompe di calore… o ancora, cosa accadrà se, quando, dovremo avere “case green”? La cosa più immediata che vien da pensare è: «Sì ma tanto devo pagare io», lo stesso l’auto elettrica. Ecco, questo tipo di transizione, calata dall’alto, non risolve il dilemma. Serve un interesse pubblico e una redistribuzione delle risorse, invece viviamo all’interno di una società che ha una logica privatistica, nella quale alcuni (pochi ndr) pezzi di economia stanno facendo enormi profitti. Ovviamente, non esiste un’unica soluzione ma, per esempio, ho trovato molto interessante la proposta del Brasile al G20 di quest’anno che prevede di tassare gli ultra-miliardari per finanziare la transizione: stiamo parlando di 2.000 individui sull’intero pianeta, che hanno a disposizione patrimoni giganteschi, ecco quelle per esempio sono risorse intrappolate, che potrebbero essere impegnate in protezione sociale oppure sul reddito delle persone. Ma si seguono altre logiche, che sono gli interessi privati o, al più, quelli delle grandi lobby».

Quali sono le qualità che dovremo essere in grado di mettere a disposizione per attuare questo cambiamento?
«L’empatia e la riscoperta della nostra componente umana saranno fattori determinanti per capire come il nostro sistema si rapporterà, per esempio, alla questione migratoria o alle guerre; perché la componente umana è fondamentale per la questione climatica? Perché non abbiamo ancora metabolizzato il rischio che il velocissimo cambiamento climatico in atto non riguarda la storia della Terra, il pianeta sopravvivrà e alcune specie si adatteranno, il problema è se la razza umana sopravvivrà. Per fare questo dobbiamo recuperare la “dimensione umana” del clima, capire che non è una questione ambientalista, rispetto alla quale le persone si sentono escluse – “riguarda l’ambiente, non stai parlando di me”, ci potrebbero rispondere -. Bisogna far comprendere che non attuare la transizione è un pericolo ma, lo stesso, sarebbe pericoloso attuare una transizione “ingiusta”, dobbiamo uscire dal senso privato degli interessi personali – anche nei nostri paesi democratici, dove cresce l’astensionismo e assistiamo al declino dei partiti, del resto meno si partecipa più qualsiasi cambiamento apparirà come calato dall’alto – occorre tornare alla politica, nel senso più nobile del termine, alla partecipazione, al dibattito su questi temi, che sono ‘grandi’ e ‘alti’». E che riguardano tutt3 noi.