Bergen, Norvegia. Credo sia più o meno la quinta volta che torno. E ogni volta è una coniugazione della parola, casa, che non è un luogo fisico necessariamente. Più che altro è una questione di aria, di mood, quest’aria in transito da nord, fredda.
Bergen la ventosa. Pioggia e grigio. Tempo tipico di una città affacciata sull’oceano.
Arrivato con la pioggia ieri sera, luci, locali piccoli con le luci gialle e cibo caldo. Le persone che parlano a bassa voce, mangiano e sembrano godersi il tempo nei dehors ci fermiamo al Bergen Bors, un albergo in centro a due passi dal porto. La sala per la colazione, e gli aperitivi, è enorme costruita sulla base di un caveau di una banca, alle pareti gli affreschi dei lavori e gli artigiani di quella che un tempo fu la capitale della Norvegia: ai muri, pescatori e fabbri, muratori e contadini.
Stamattina presto invece, vento forza 7, dopo aver preso la funicolare Fløibanen – qui il parallelo va a Lisbona e ai portici sotto i quali si metteva a bere caffè Ferdinando Pessoa, coi suoi baffi eleganti, da gatto ndr – saliti al panorama Bergen si estende pacifica su questa lingua di costa, mare e cielo grigi che si toccano, al largo i pescherecci partono o tornano, abituati ai flutti.
Gente tosta i norvegesi, ricordo il Museo e i vichinghi, di quell’epoca restano non molte tracce, pure nel centro storico sul porto, a Bryggen, si affacciano gli antichi caseggiati di legno che, un tempo, furono sede della mitica Lega Anseatica.
I colori del legno sono vividi, ancora, così le piccole vie e le aperture, un passaggio da uno dei panettieri che sfornano quotidianamente kanelbolle, dolci rotelle fatte con cannella e zucchero, un caffè macchiato prima di immergersi nella città. Murales lungo le vie del centro.
I campanili svettano nel cielo color ghiaccio, in piena primavera, qui fa 4°C sferzanti, tanto che adesso mentre scrivo, non so se per il freddo, sento brividi e il volto accaldato quasi febbricitanti, gli occhi, lo stesso il Nord, questa calma (apparente almeno) fatta di vie e poche macchine, passanti dai passi mai affrettati, negozi di dischi e passaggi pedonali ad arco sotto i quali ripararsi in caso di pioggia (2 volte solo nell’arco della mattina).
Le case colorate, i tetti a spiovente, si cammina lungo Bergen e si arriva ovunque, è il nord come direzione, la possibilità; mi fermo a un supermercato e compro due barrette di cioccolato, la granella di zucchero che già so utilizzerò per provare a replicare i miei amati dolci girella al gusto di cinnamon.
Tornando indietro di nuovo lungo i labirinti piccoli delle vie sul porto (persino la toilette del mercato del pesce è immerso nel blu oceano) il grande mercato all’aperto oramai è al coperto: dove prima c’erano solo banchi di pesce – sono stato qui l’ultima volta nel 2016 – adesso ci sono graziosi dehors dove si può gustare lo stesso pesce esposto sul banco, cucinato all’impronta (ormai guardo i grandi, enormi, qui, oceanici, costretti da lacci sulle chele e so che non mangerò, mai più). Fra poco mi aspettano due traghetti e due ore di auto. Stasera ci saranno altri tavoli di legno e cene.