La foresta. Questo organismo plurimo e pulsante. Luogo di culto, sacro agli dèi, del sacer come lo qualificherebbe Giorgio Agamben. Regno contrastato dei vegetali, e dei grandi plantigradi, immuni ai tempi e la guerra degli umani.
Ecco una parziale visione, per tanto sghemba, dell’intorno da qui, per opposizione pertinente: la pace (questa parola trita e abusata alla quale, evidentemente, l’uomo non riesce a rassegnarsi) e lo spirito da un lato, il dominio e gli artigli dall’altro. Due visioni in qualche modo tarate sul tempo, l’eterno ritorno e il superamento dell’uomo.
Prima la riflessione sui regni siamesi e l’alter-sviluppismo thailandese del XX secolo.
In entrambe c’entra l’ambiente come questione identitaria, i luoghi ci appartengono, costituiscono l’imprinting della nostra memoria primordiale, i nostri corpi persino il nostro volto deriva, per radice, dal nostro habitat.
Partiamo prima dalla dimensione dello spirito. Perché un amico con la barba mi ha detto di leggerlo e dunque.
Eco-buddhismo. Monaci della foresta e paesaggi contesi in Thailandia di Amalia Rossi (Meltemi editore, prefazione Andrea Staid, immagini fotografiche dell’autrice, 20,00 euro) si configura quale lettura “alter-sviluppista dell’ordine ambientale”, troviamo indicato sulla quarta di copertina. Rossi insegna Antropologia culturale alla NABA-Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, PhD in Antropologia della contemporaneità. A partire proprio da una serie di ricerche etnografiche condotte tra il 2007 e il 2015 Rossi si concentra su un territorio specifico, la provincia nord-thailandese di Nan, al confine settentrionale con il Laos. Paesaggi collinari, valli, fiumi, verde ovunque.
La prima parte risulta forse tecnica per via di rilievi e specifiche che servono però all’autrice a fornire una mappa mentale, prima ancora che evocativa, al lettore: rilevazioni multisituate, che danno conto degli incontri di Rossi con le comunità hill tribes, la preziosa ricerca sul campo che permette quella precisione della scrittura, così la narrazione del contesto si sviluppa dal singolo, gli individui che costituiscono un popolo, la popolazione che abita quei determinati luoghi, e il peso della “rappresentazione” e dei contesti (qui Rossi cita, uno per tutti, il Guy Debord per la “specializzazione sociale (…) del potere (…) alla radice dello spettacolo” di cui tanto ci stiamo accorgendo oggi). L’intuizione dell’autrice dà conto dell’immagine corporativa delle imprese, così delle multinazionali – il mondo interconnesso, la globalizzazione imperante, l’Impero del profitto tecno-finanziario – e per converso la possibile esperienza suggerita da altri enti, organismi-frontiera come le ONG, e infine i monaci buddhisti.
Qualche anno fa, ho partecipato a un press trip in Thailandia, oltre l’odore fortissimo di olio di cocco nell’aria rammento i Buddha giganti, i templi nella foresta, i demoni a guardia e presidio delle piccole comunità.
Ecco allora che il saggio di Rossi risuona, eco e gong mistico nell’aria alta dei templi di montagna, i luoghi dello spirito a cui tanto siamo approdati durante il picco della pandemia – la sperimentazione della fratellanza umana – per poi dissipare tutto in favore di una nuova sostanza guerrafondaia basata sul dominio e i prossimi sub-movimenti geopolitici del mondo (la guerra di Putin è solo un esempio dell’annessione di altri territori all’esercizio del dominio dell’uomo sull’altro).
Rossi scioglie il paesaggio in Siam-Thailandia e ci porta lontano, quando siamo ancora tutti fermi in questo punto di torsione storica, quando la politicizzazione della foresta esonda da questione locale al più ampio dibattito della deforestazione. Se si tagliano le foreste il territorio cede – l’autrice ricorda giustamente il degrado ambientale che nel 1989 determinò il bando del legname, Logging Ban, dopo che una frana uccise 300 persone nella provincia di Nakhon Si Thammarat proprio a causa del taglio indiscriminato).
Per questo, par dirci Rossi, esistano i demoni delle foreste. Per la cura e la salvaguardia della vita. Ma noi ce ne dimentichiamo. Siamo arrivati troppo in alto nella piramide che ci siamo auto-costruiti. Re per un giorno, l’immane sciocchezza del sentirsi al pari della divinità. Quando alla Terra basterebbe un sussulto, un singhiozzo, per scrollarci via. Ambientalismo e agricoltura, la necessità di una narrativa ambientale prendono da qui le mosse nel testo che, al pari delle radici degli alberi e dei rami, si innesta come storylines, liane che portano a due definizioni altrettanto evocative, oltre che puntuali: la “arboreizzazione dell’immaginario” e la “civilizzazione della foresta” ovvero, e qui si spiega il titolo del saggio, l’interesse sempre maggiore di intellettuali, contadini, monaci, turisti, alla sensibilità ambientalista e eco-buddhista. Lo spettacolo della natura, ci dice Rossi, va di pari passo con il riconoscere le diverse eterotopie ambientali: lo spazio “forgia” il paesaggio, ed è qui che il paesaggio si fa ambiente, parola, presidio, nume tutelare di una comunità, espressione poetica (persino poietica) dell’immaginario socio-ambientale che costituirà quei luoghi, e ne determinerà gli effetti su chi vi abita: contadini, Foreste Comunitarie, sviluppo rurale. Il prosieguo del saggio passa in rassegna i conflitti etno-ambientali – il Parco Nazionale del Doi Phu Kha – l’economia di villaggio (ma il villaggio è, ormai, “globale”), le fotografie di Amalia Rossi si alternano a dati e transazioni sino ad arrivare al cuore, è il caso di dirlo, del saggio nel capitolo Dai monaci della foresta ai monaci ecologisti dove l’autrice dà conto della nascita dell’eco-buddhismo thailandese, dalle origini storiche fino ai giorni nostri: dagli dèi-albero al movimento di Buddhadasa e i conservazionisti, gli sciamani, i governi e l’orto-prassi rurale, la Sufficiency Economy, il cambiamento dell’habitus l’abitudine allo sviluppismo, il capitalismo e la retorica dell’acquisto, e lo slittamento semantico verso il buad paa, la consacrazione della foresta, la conservazione, l’allungamento della vita della foresta. La necessità dunque di una rivoluzione mentale, che deve porre un rinnovato equilibrio fra i regni: minerali, vegetali, uomini e animali, micro-organismi. Tutto a partire dalla foresta quale luogo-archetipo perché, chiosa Amalia Rossi, senza vita vegetale, semplicemente, non si dà la vita.
Orsi danzanti di Witold Szabłowski sottotitolo Storie di nostalgici della vita sotto il comunismo (Keller editore, € 18,00, trad.it. Leonardo Masi, scatti immagini del fotografo Albin Biblom) è il reportage politico di un reporter che, a partire dall’addestramento degli orsi a opera dei rom della Bulgaria, delinea i fronti di libertà delle persone, e del successivo neo-capitalismo, attraverso un taglio apparentemente naturalistico.
Gli orsi danzanti del titolo sono qui metafora di un reportage ibrido, l’autore ci porta alla radice semantica della contemporaneità, l’allegoria del ballo dell’orso, simbolo della Grande Madre Russia a cui pure il neo-zar Putin tenta di tornare, si fa gioco degli uomini.
Szabłowski ci porta ai quattro angoli dell’Europa ex sovietica, imponendo un affresco da quarto stato dei paesi-satellite del comunismo: Bulgaria ma anche Ucraina, appunto, Georgia, Kosovo, sino alla Londra pre-Brexit, e Cuba.
Basta leggere le parole-chiave, i territori d’avanzo che prende in considerazione il reporter-autore per comprendere l’assurda oracolarità di certi testi. La grande Storia del resto è giogo ed essenza: il Comunismo crolla e per i rom bulgari finisce un’èra, l’esodo di un pensiero politico diviene esondazione, fuoriuscita da un sistema complesso di vite e ideologie, giorni passati a insegnare agli orsi a ballare, fino al ripensamento di un intero sistema socio-politico.
Szabłowski ci chiede sin dall’inizio: “La libertà fa male. E farà male. Siamo pronti a pagare per lei un prezzo più alto di quanto non abbiano fatto gli orsi danzanti?”.
Quanto saremo disposti a pagare per. Quale il prezzo della libertà. Risuonano incredibilmente le parole del presidente Zelens’kyj. Kiev. Odessa. L’esodo del popolo ucraino. I tank fermati dalle persone. I corridoi umanitari. Le città assediate.
Tutto questo non c’è eppure lo possiamo leggere fra le righe del reportage di Szabłowski scritto con uno stile asciutto, per immagini.
Treni, il lavoro che porta lontano, è un tempo scomparso quello di cui parla l’autore. Il tempo estinto delle credenze popolari, “Quando una persona era molto malata e i medici non potevano aiutarla, questa andava dal proprietario di un orso. L’animale si sdraiava sulla persona e la gente credeva che la malattia passasse all’animale. E siccome l’orso è grande e forte, non sarebbe morto”, sfilano i villaggi bulgari prima della dissipazione del blocco sovietico, se l’attacco del testo è però dedicato all’amore sfilano, altrettanto luoghi-immagine, la libertà: “La libertà è per l’orso (ammaestrato ndr) uno shock tale che non si può mandarlo direttamente dalla gabbia al bosco. Bisogna dargli qualche giorno prima per adattarsi. La libertà è una nuova sfida. Nuovi suoni. Nuovi odori. Nuovo cibo.”, quanto vi sia in queste descrizioni dell’umanità, il peso specifico dei nostri giorni, è la negoziazione del nostro quotidiano: quanto dureremmo in cattività, e una volta perso quello status, di nuovo rilasciati al mondo selvaggio, saremmo pronti a tornarvi? Civiltà vs lucus, bosco, l’inconosciuto intrico dei boschi del lupo cattivo, e la necessaria verità del riconoscerci che, se v’è un lupo per l’uomo quello siamo noi.
Scopriamo leggendo Orsi danzanti che v’è stata una serie bulgara su questi plantigradi, il circo degli zingari e i balli delle belle gitane, i fazzoletti rossi e le catene al collo dei bestioni ritti sulle due zampe dell’evocativa immagine di copertina.
Un orso va in letargo, ci ricorda Szabłowski, ed è lì che ricostituisce forze, superando il ghiaccio degli inverni, e noi umani invece dove si annida il nostro letargo, la nostra aquiescienza? Dove agisce la ‘castrazione’ degli esemplari in cattività negli orsi, e dove negli abitanti oramai civilizzati di metropoli-parco giochi, il mondo misero attaccato perennemente alla catena dell’iperconnessione? E’ davvero tutto qui il portato rivoluzionario dell’hybris della contemporaneità: la McRivoluzione? Di qui in poi Witold Szabłowski inanella storielle-racconti, narrazioni-volto, podcast stories di un mondo scomparso, presente, passato, il bianco e nero dei nostri giorni superati e futuri.