Un progetto meritorio, si chiama – liberamente tradotto – Gli ultimi parlanti di Paul Adams e Jordan Layton, qui il sito, raccoglie alcune foto degli ultimi uomini e donne che parlano lingue considerate ormai in via d’estinzione nel Nord America.
Una riflessione su linguaggio, eredità, memoria e futuro. E perché no anche sull’habitat, il nostro modo, la capacità che avremo di misurarci con il pianeta nei prossimi decenni. Ovvero, quanto siamo disposti a imparare un nuovo linguaggio?
Il modo in cui parliamo, la lingua entro la quale nasciamo, scopriamo il mondo, la lingua-madre, -padre è la terra dei pensieri che saranno, il perimetro con cui iscriveremo noi stessi, l’amore, i giorni.
Le parole sono edifici. Le prime 100 parole che il bambino impara, il modo in cui incastra i mattoncini del suo linguaggio, saranno porte. L’incastro dei pezzi comporterà la comprensione successiva.
Il linguaggio, le parole, il tono. Le storture, l’uso delle affricate, non in latino, gli errori grammaticali o di comprensione sui quali basiamo le nostre scelte.
La lingua è il modo in cui il mondo ci conoscerà, dichiarerà il nostro nome, ci gireremo quando e se. Ci alzeremo in piedi, per dire no. Il coraggio. La nostra voce, un tratto più distintivo delle mani.
C’è uno spettro che si aggira per il pianeta e no, non è politico, è sociale, è tutti noi: è l’attacco alle culture cosiddette minori.
E’ stato calcolato che muore una lingua ogni quattordici giorni. E se così dovesse continuare – e sicuramente così andrà, perché l’omologazione, la semplificazione – entro il prossimo secolo quasi la metà delle circa settemila lingue parlate sulla Terra scomparirà.
C’è un monopolio linguistico, le lingue dominanti – inglese, mandarino e spagnolo – esercitano tutta la loro capacità dissipatoria. Il commercio prevede regole facili. La globalizzazione ovunque. Questo rischia di diventare un articolo spiacevole, stucchevolmente drammatico. Così non è, è solo realistico.
Dietro ogni lingua ci sono volti e misure. C’è il costruito. La società edificata in base alla sintassi, il peso e la metrica dei pensieri.
What if, si chiedono sempre gli autori di fantascienza, cosa succederebbe se alcune parole sparissero. Tutti i modi per dire, ti amo, buonanotte, grigio, rosso, neve.
Il punto non è la scomparsa. Il punto è la sudditanza nei confronti dei dominanti.
Se il commercio ha le sue regole d’ingaggio, la sostanza del creato – in letteratura si parla di world building, gli autori costruiscono i propri mondi, attraverso i personaggi, proprio come abbiamo fatto noi nei secoli edificando città e conformando territori – lo spazio di relazione tra habitat e abitanti, il valore di densità che questi volti, uomini, donne, queste esistenze rivestono per il luogo che abitano, parlandolo, è criterio di tempo: è il futuro.
Se domani il monte-linguaggio si ridurrà, allo stesso modo diminuiranno i modi per amarsi, arrabbiarsi, incitare, ridere, persino morire. L’accettazione della fine. La fine non della Storia, piuttosto della nostra storia nella grande narrazione del mondo.
L’uomo nei secoli ha prodotto molte meraviglie. Il linguaggio è uno fra i molti. Eppure: le storie, i gridi di libertà, la progettazione di Ninive, Roma, New York City, Babilonia.
Alcuni diranno che è naturale, fa parte del processo di evoluzione, equivocando Darwin per un film degli anni Ottanta in cui gli highlander si uccidevano a colpi di spada, affinché alla fine ne rimanesse in piedi, solo uno.
E’ la logica dell’opposizione che non va. La mancanza di cooperazione. In natura invece l’individualismo non paga. Di questo occorrerebbe tenere conto, la relazione con il pianeta il derivato complesso di culture, le prospettive rizomatiche di lingue, impasto d’una nuova terra degli uomini che non faccia scomparire ma preservi. Il punto è sempre lo stesso. Stiamo attraversando uno snodo epocale della nostra civiltà.
La linguistica è vettore di incontro, non a caso uno dei libri più interessanti degli ultimi anni sulle altre forme di vita (vedi alla voce “alieni”) lo ha scritto Ted Chiang, Arrival Storie della tua vita (Frassinelli) divenuto film, 8 nomination agli Oscar, regia di Denis Villeneuve.
Le lingue processano la realtà. Ne evidenziano gli stati liquidi, solidi. Esprimere un concetto in italiano non è lo stesso che dire la medesima frase in turco, armeno, islandese.
Potremmo fare come Franco Lucentini, imparare 11 lingue, sperando di non mischiarle. Oppure, semplicemente, salvaguardare il patrimonio genetico del nostro raccontare il mondo.
Forse il discorso più ampio è la tutela. Soprattutto dei popoli indigeni. Vale per le tribù amazzoniche scacciate dai loro villaggi a causa della deforestazione. Vale per i diritti delle piante, e degli animali in un’epoca in cui l’Antropocene rischia di estinguere non il pianeta sul quale vive, quanto, piuttosto, sé stesso. Che poi è solo un altro modo per dire, noi.