Che fosse già in bilico sulla propria esistenza, il giovane Kafka, quando scrive ai suoi, nel luglio del 1914 appare già dalle prime righe riportate dal libro A Praga con Kafka di Giuseppe Lupo (Giulio Perrone editore, € 15,00): “Mi figuro dunque che il mio progetto possa essere eseguito in questo modo: possiedo cinquemila corone. Con questo posso vivere due anni, se occorre senza dover guadagnare, in qualche luogo della Germania, a Berlino o a Monaco. Questi due anni mi permettono di dedicarmi ai lavori letterari e di esprimere ciò che a Praga tra la fiacchezza interiore e i disturbi esterni non potrei dare con altrettanta chiarezza”.
Praga è un personaggio ingombrante in questa vita d’autore, così come lo è per tutti del resto (la provenienza da cui veniamo partoriti, sparati nel mondo) e così il romanzo di Lupo inizia dalla fine, da un cimitero (non a caso anche Umberto Eco titolò così il suo sesto romanzo). A spasso tra le strade, il fascino discreto, spugnoso, nebula e vapore, di pensieri accumulati e sfiorati appena, l’autore ci conduce per 144 pagine nella verticale di uno degli scrittori più importanti e, contemporaneamente, sfuggenti di sempre.
Il tempo. Il tempo per Huysmans, il tempo di Proust, quello di Yourcenar, e di Jung. E poi l’Ottocento che scoppia, il secolo del vapore delle illusioni perdute che si interrompono brusche, pochi attimi di felicità appena, la Belle Époque e poi saranno le due guerre mondiali. E Franz, il giovane, Franz non ancora Kafka che si rifugia nel mondo di ieri (nelle parole omonime del titolo dell’altro grande romanzo del Novecento sulle certezze infrante che scriverà l’austriaco Stefan Zweig nel 1942, quando Kafka è morto già da 18 anni).
Giuseppe Lupo, che insegna Letteratura Italiana Contemporanea alla Cattolica di Milano, ci rammenta, seguendo il lastricato della filologia umana – Kafka a conversazione con Kafka, specchio e anima di un tempo scomparso che non tornerà più, Kafka come archetipo e labirinto di sé – che ci dovremmo rammentare l’umiltà, nei giorni, perché per quanto noi si insulti il mondo, ben presto lo spettro di ciò che crediamo realtà ci rimanderà la vera immagine della nostra incompiuta esistenza, il nostro non essere abbastanza, se pur ci beiamo di apparire migliori, arrogandoci il giudizio e l’estetica sulla degli altri vita. Kafka la blatta, il ragazzo che fin dai primi dissapori con i genitori impara l’arte del nascondimento, ombra di sé, specchio della propria vocazione mascherata, non il labirinto di Borges ma, piuttosto, i meandri del presente vissuto due volte. Nell’apparenza umana e nell’essenza di scarafaggio.
Così, Lupo, a suo modo pare dirci attraverso la vicenda di questo titano umile, questo liquido contrasto, quest’ombra preziosa e assente, Kafka scomparso ad appena 41 anni, boemo di nascita, tedesco per scelta linguistica, che tutto il presente non è che dispiegamento di fuoco per sublimare il mancante, l’assenza, il vago che negli scritti del praghese si riveleranno nel suo realismo magico, nell’incanto della trasformazione.
Di passaggio al Café Arco, e di più attraversando il quartiere ebraico di Praga, via per via, seguendo parole d’un altro suono – Václavské náměstí, via Celetná, Staré Město – Lupo condensa la sagoma smilza, emaciata, un uomo che è per sua stessa metamorfosi un castello, abitato da mesta solitudine pur in mezzo ai marosi delle esistenze altrui, la vitalità, l’esistente, nel Kafka che si allontana da Praga ritroviamo tutta l’essenza noumenica della propria condizione umana.
Comprendiamo attraverso questa indagine di Lupo, l’aporia con cui per tutta la vita il giovane Kafka si troverà a fare i conti, sino alla fine dei giorni, il vero mancante, numero incomprensibile attraverso le parole dell’amata Milena che scrive al comune amico Max Brod: “So fino all’ultimo in che consista la sua angoscia. Questa c’era anche prima di me, quando egli ancora non mi conosceva. Ho conosciuto la sua angoscia prima di conoscere lui”, la colpa nei confronti del padre, l’imbastevole condizione umana di questo scrittore straniero a sé stesso prima ancora che in patria, come Lupo riporta nell’accenno al testo di Claudio Magris in Itaca e oltre. La Moldava, Karlův most, Kurt Wolff il suo editore. Tutto è mancanza nella vita di Franz Kafka.
Perché, fra le altre cose, è assente in lui l’élan vitale di cui parla Bergosn, poiché se esiste un creato e una lingua, la parola mancante a Kafka è la più semplice di tutte: “In amore, come in ogni incantesimo, dipende tutto da un’unica parola. Bisogna che la definizione vaga e generale – una donna – sia sostituita da quella più precisa e delimitata – la donna. Un concetto di genere deve diventare una forza del destino” attribuita al boemo dalla controversa figura del cosiddetto amico-poeta Janouch, a cui si deve la biografia Conversazioni con Kafka.
L’angelo della Storia di cui parlava Walter Benjamin descrive il vento di ciò che verrà, Lupo intende Kafka come zeitgeist spirito di un tempo – il nostro – pieno di labirintiche trasmutazioni, rigurgiti nazionalistici, odii, incomprensioni, lo scontro fra il vissuto/saputo che ci coglie sempre impreparati, mentre pensiamo di essere e riconoscere. Ma non ce la faremo mai, suggerisce Kafka dopo Kafka, diventato suo malgrado emblema di una memoria indiretta predittiva e fantasmatica, collettiva, storia di tutti e di nessuno. L’ebreo di Praga con il volto bianco e appuntito. Siamo tutti fantasmi appesi al tempo inesistente, pare dirci il Franz Kafka di Giuseppe Lupo. Per quante arie ci potremo dare, per il mondo rimarremo sempre scarafaggi. Una lezione di umiltà in giorni in cui, invece, l’uomo imperversa e annota il suo egoismo sulla Terra. Siamo passeggeri. E questo di Giuseppe Lupo è un romanzo geografico, che definisce i confini dell’uomo Kafka, ma più ancora ci mostra l’individuo che è parte del tutto, il liquido amniotico del mondo entro cui siamo immersi.