tutto è già cambiato: trauma, bambini, habitat – una riflessione

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Quando ci riabbracceremo, avremo i capelli più bianchi.
Questa emergenza finirà. Con il vaccino. I tempi per averne uno stabile, però, non saranno brevi: la prossima estate? Natale 2020, o a un anno esatto dall’inizio (la fine) di tutto, gennaio/febbraio 2021?
E il punto è proprio lì, fra quelle parentesi. L’inizio e la fine.
Inizio del contagio / fine di un sistema socio-economico del quale pure, da tempo, sentivamo gli scricchiolii (per una delle analisi più efficaci, cfr. di Mark Fisher, Realismo capitalista, nero editions, qui un estratto).
Fino a ieri – ieri, che sembra 1.000 anni fa – pensavamo di vivere in un, anche ripetitivo, persempre: vacanze, spesa al sabato mattina, palestra, ristorante. Una realtà eternata.
Il capitalismo sarebbe sopravvissuto a se stesso, sub specie aeternitatis. Punto e accapo. E noi immortali.
Poi Wuhan. E tutto è cambiato.
Adesso dobbiamo risolvere una contingenza complessa. Pure, senza catastrofismi, il punto – ci dicono gli scienziati – sarà il “contagio di ritorno” che potrebbe verificarsi nel prossimo autunno.
I punti dirimenti da risolvere nei prossimi mesi saranno di più.

1 – TRAUMA COLLETTIVO
Il coronavirus ci ha messi collettivamente in stato di deprivazione, del quale peraltro sconosciamo al momento la fine, il dubbio si è insinuato.
Vivere in questo stato di perenne incertezza ci rende più deboli, smonta l’architettura precedente che avevamo edificato – l’habitat interiore – per corrispondere/vivere nella società in cui siamo cresciuti.
Come la chiameremo adesso la società in cui siamo vissuti fino al dicembre 2019: società 2. o, 3.o?
Adesso i “punti 0” non ci sono più.  Ciò che stiamo subendo, la limitazione delle libertà, ha a che fare con l’identità.
Un trauma di solito ingenera una ferita che si deposita al fondo dei corpi.
La nostra generazione, a livello globale, sta subendo una frattura collettiva, una faglia, che si depositerà nei rapporti con sé e con gli altri.
Un trauma globale che, per certi versi, si potrebbe mettere in rapporto con chi ha subìto gli orrori della guerra, o i sopravvissuti ai campi di sterminio. Solo che lì il nemico lo vedevi, le bombe, i nazisti. Qui, il nemico non è solo invisibile, di più: potremmo essere noi.
Il male è dentro.
Questo però, a un’analisi più approfondita, potrebbe avere alcuni aspetti positivi.
Il trauma ci costringerà a rimettere in discussione tutte le nostre scelte, lo sta già facendo dentro le case entro le quali orami viviamo 24h/giorno.
Stiamo già mettendo in crisi (il cui doppio in termini di significato per l’iChing è “opportunità”, cfr. il concetto di sincronicità in Jung qui) i nostri rapporti, la nostra vita affettiva. La famiglia. Se ci soddisfa il lavoro che facciamo, mentre l’Organizzazione del Lavoro (che comprende 187 Paesi) ipotizza che la pandemia possa provocare la perdita di 25 milioni di posti di lavoro.
Sarà un’occasione, un check point, per comprendere le scelte che abbiamo fatto finora. Terremo allora ciò che ci soddisfa davvero. Sarà un’occasione per eliminare il superfluo, a volte anche dolorosamente, come in questi giorni stiamo puntando all’essenzialità nella condotta di vita.
Per la prima volta abbiamo dalla nostra il tempo per guardarci in faccia e capire, davvero, le ferite aperte, lo spazio del residuo, dove eravamo finiti da quando il bambino che siamo stati aveva abdicato ai propri sogni, in favore di uno stipendio fisso, un posto al sole, una casa, un rapporto non soddisfacente ma stabile.
Per fare questo occorrerà interiorizzare il trauma collettivo. Tutti stiamo subendo una perdita. Alcuni anche dei propri cari.
Non andremo più al ristorante con spensieratezza, probabilmente. Secondo gli analisti della Technology Review del MIT la situazione attuale avrà ripercussioni stabili sulla prossima società. Qui lo studio. Cinema con meno posti, vivremo tutti più distanziati. Lavoro in smart working. Tracciamento degli spostamenti via cellulare, così da capire chi è infetto e chi no, in barba alla privacy. E in questi giorni di emergenza in molti inneggiano alla possibilità di utilizzare i GPS per capire chi rispetta il coprifuoco e chi no. Utile, sicuramente per limitare la propagazione del contagio. Ma se effettivamente dovesse passare, le nostre menti accettare, la possibilità di essere seguiti, sempre, ciò impatterebbe sulle nostre abitudini, i comportamenti. Non sarebbe solo la fine della privacy, e il diritto al segreto (pensate agli amanti, in questi giorni) ma di più potrebbe portare a una società discriminatoria che privilegia i sani e mette in quarantena i malati, i disabili, gli infetti. Gap sociali e pubblico allontanamento. E se fossimo noi ad aver contratto la malattia?
Il riconoscere lo stato di frattura sancirà un prima e un dopo Wuhan, e Italia.
Le palestre, la pizza, i viaggi in macchina. In generale gli spostamenti, i voli low cost, se le compagnie aeree sopravviveranno, e come, con quali assetti, volare costerà di più. Si volerà di meno allora? Oppure forse si accelereranno le conversioni full electric di cui si parlava qualche tempo fa: aerei completamente elettrici a basso impatto inquinante (aria più pulita, meno possibilità di propagazione degli agenti patogeni e virali, cfr. studio correlazione pandemia/smog qui ndr).
In sintesi, il trauma collettivo avrà una serie di ripercussioni. Tra le quali un aumento del carico di lavoro per gli psicologi: che sia un altro dei mestieri del futuro? Insieme al mondo dell’entertainment, che è già (Netflix, YouTube, libri) l’unica arma per resistere a questi giorni di isolamento dal mondo.

2 – BAMBINI
Se c’è una voce che manca nelle giuste misure governative all’emergenza coronavirus, quella è proprio “bambini”.
Ci siamo preoccupati di limitare le uscite degli adulti allo stretto necessario: spesa, farmacia, sport all’aria aperta. Persino i cani.
Ma in tutto questo ci siamo dimenticati di uno dei diritti dell’infanzia più importanti: stare fuori.
Il concetto espresso che per noi è interiorizzato: l’esterno (gli altri, il mondo) e l’interno (io, quale lo spazio dell’individuo all’interno di una comunità).
In un clima in cui la scuola è saltata, e probabilmente l’intero anno scolastico andrà perso.
Nel momento in cui le loro relazioni sociali si sono infrante: il gioco con altri della loro stessa età, le corse e la conseguente capacità di cadere e allora rialzarsi, il doppio binario da scegliere confronto/scontro per vincere o dirimere le divergenze, la dinamica relazionale e le alleanze composite e mutevoli.
Ci siamo dimenticati di loro.
Saranno la prima generazione a subire un’interruzione formativa dal dopoguerra.
Come è possibile pensare che un bambino stia dentro casa per 15 giorni, 1 mese, 2, 3?
Una provocazione. Avremmo dovuto, forse, pensare esattamente il contrario a ciò che abbiamo applicato. Far uscire loro e stare dentro casa noi, gli anziani.
Per proteggere gli adulti, soprattutto le fasce più attaccabili dal Covid-19, loro sarebbero dovuti essere al parco. E noi, che abbiamo più strumenti per concepire la limitazione (il trauma collettivo) invece avremmo dovuto stare chiusi in casa.
Un mondo abitato da bambini. Aveva ragione Elsa Morante, magari forse quando tutti avremo fatto il vaccino, capiremo ciò che Saint-Exupery scriveva prima di scomparire: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. Tranne a quelli dei bambini.
Nel frattempo i genitori si attrezzano per l’home schooling. Alcune scuole, sbagliando, stanno caricando di compiti i bambini ipotizzando che così facendoli “lavorare” potranno recuperare il buco formativo. Ebbene, non è così. I genitori non sono maestri, o professori, categorie spesso bistrattate che rappresentano invece il vero valore aggiunto della didattica, metodologie sperimentali.
Il mondo non esiste. Esiste il modo in cui lo guardiamo.

3 – HABITAT
Ciò che muterà per sempre è il concetto di Spazio.
Se il Novecento è stato il secolo del Tempo, l’inizio del XXI secolo si apre con una rimodulazione complessiva del concetto di spazio.
Distanza sociale. Il nuovo modello che si sta strutturando: camminare a 1 metro di distanza, il non potersi abbracciare, la paura che si depositerà; tutto questo è un punto di non ritorno della relazione tra singoli, che insieme fanno comunità. Le nostre identità sommate, la società che si sta radicando a partire da questa nuova sintassi originata dal virus avrà ripercussioni in una nuova spazialità.
Città. Una delle ragioni del contagio è la prossimità. La statistica in base alla quale se aumenta la possibilità di incontrare l’altro, aumenta la possibilità di contagio.
Secondo le ultime stime dell’ONU entro il 2050 il 70% della popolazione mondiale avrebbe abitato in città. Con conseguenze sulla sostenibilità dei servizi: ospedali, reti elettriche, idriche, smog e polveri sottili, scuole. Questo prima del coronavirus.
Adesso chi abita in campagna o in montagna, al mare, o chi più semplicemente ha maggiori possibilità di andare a camminare nei boschi (fare un isolamento green) riuscirà probabilmente a superare con minor difficoltà questo periodo di isolamento prolungato.
Ciò potrebbe innescare uno “spopolamento di ritorno”, dalle città alle campagne, come sosteneva tempo da Michel Onfray (qui). O nella ipotesi più verosimile accelererà la costruzione delle green belt, le cinture verdi intorno alle metropoli, di cui si parla da tempo. Più alberi, aria più pulita, maggiori spazi verdi di prossimità per camminare, e per l’attività all’aria aperta. Le città-albero di cui parliamo da tanto, forse, sono una delle soluzioni.
Probabilmente, allo stesso modo, questa situazione potrebbe invertire anche il trend del gigantismo entro il quale siamo vissuti finora. Too big to fail. Adesso invece gli spazi grandi, che arrivavano al break even point, coprire i costi e guadagnare, solo in caso di presenza di centinaia di persone, subiranno le perdite più importanti. Pensiamo ai grandi villaggi commerciali, luogo di aggregazione e quindi proliferazione. Ma allora la rimodulazione del restringimento potrebbe significare un ritorno al “piccolo”, che ha costi ridotti e presenza contenute. Forse si moltiplicheranno le librerie di quartiere, saremo più sparpagliati, pure la cultura è un bene anti-economico, diviso tra molti, aumenta. Da questo concetto occorre ripartire.
Noi. Il virus sta cambiando il nostro habitat interiore. Siamo di più a casa. Siamo più spaventati e deconcentrati. Ma stiamo imparando un modello di relazione nuova. Adattamento e rinnovamento sono due vettori che stiamo imparando sulla nostra pelle nella rimodulazione del quotidiano.
Alcuni di noi continuano ad andare al supermercato il sabato mattina, come se nulla fosse. Mantenere le abitudini (habitat, habitus, abitudine) del quotidiano. Ma il quotidiano si è infranto.
Stiamo capendo in questi giorni – dopo lo spavento, la consapevolezza, l’emersione – che siamo cambiati noi, il nostro spazio interiore, l’io, è cambiato lo spazio in cui abitiamo, il mondo.
Siamo mortali, questo lo abbiamo capito quando un microrganismo acellulare con caratteristiche di parassita obbligato (fonte: Wikipedia) ha azzerato il paradigma entro il quale iscrivevamo i nostri giorni, fino a ieri.
Deve mutare il nostro modo di vivere. Lo stile di vita. Dobbiamo imparare a comprendere che esistono organismi, alcuni microscopici, altri enormi, esistono i mari, l’habitat pianeta Terra è stato fortemente compromesso dai nostri comportamenti, l’era dell’Antropocene.
Forse il virus è un messaggio del sistema complesso entro il quale viviamo.
Forse possiamo imparare. Domani. Dopo la conta dei morti, quando i figli degli uomini, i nostri figli, prima di noi avranno assimilato il trauma collettivo, e avremo ripensato l’habitat che ci ospita, secondo la logica del Tutto.