A leggere Il manuale dell’eremita (edizioni dell’asino, Euro 14) di Vittorio Giacopini c’è di che trovare vite da romanzo, storie rubate al rigattiere, un’accozzaglia di divertiti divertissement diversamente difformi dal tran tran quotidiano trasformati dal desiderio di fare, bizzarrie che hanno modificato, slittato, conformato esistenze.
Giacopini ordina, in una sintassi senza oracolo, principio e riassunto di anni, scelte, passioni, le vite di alcuni tra i personaggi più strampalati, geniali, conosciuti e mis(conosciuti) dell’intiero genere umano. Un falò senza vanità delle loro esistenze. Quasi che bruciare loro dia modo a noi di risorgere, fenice che rinasca dalle sue ceneri, si augura Giacopini (come aveva già fatto, lì però affogando, sommergendo tutto, nel suo romanzo-fiume Roma, il Saggiatore). E allora eccole qui le vite di questi eremiti ante litteram. Alfa e Omega della migliore condizione umana.
Georges Méliès, la cometa di Halley della settima arte, il secondo padre del cinema dopo i Lumiére, fantasmagorico pioniere dell’arte delle immagini, le sue idiosincrasie al mondo, ormai vecchio, visto dal caleidoscopio della senilità riordinare i giorni della sua esistenza sul suo tavolo da rigattiere pieno di carabattole; la Totalità per Ludwig Wittgenstein, che si sabotava, attento ai dettagli, incolori informi in bilico sul rasoio di Occam della storia: (p): p=aRx.xRy…zRb come si possa comprendere il mondo le cose gli oggetti, l’amorfità e l’utopia, la vita o la morte; quindi è il turno di James Joyce, osannato post mortem, lo scrittore della coscienza collettiva e singola, di un mondo incanalato nel flusso costante di se stesso, una vita come un giorno, un giorno come infinito, non Sisifo ma verticalità di parole, gorgo a spirali perfette, rapporto aureo tra le parole inventate, i neologismi per rendere il presente non banale, in fondo liberare noi, dentro; Fernand Deligny, il deragliatore, maestro che insegnava ai devianti e ai disturbati il mondo così come non lo vediamo, la zattera dell’esistenza sulla quale non affoghiamo: alambicchi, incunaboli, l’arte della fuga, sottrarsi, imparare un lessico nuovo, imparare a fuggire, alla testa di una legione di ragazzini (come Oliver Twist, più di Kipling) monaci al lavoro, in attesa, l’istante prima della fine del mondo; e ancora Giorgio Morandi, unico italiano tra stranieri oggi Tempo maledetto in cui dire straniero è colpa invece di presa d’attenzione, mare, sconosciuto esotico e avventura, Morandi e il suo conformismo borghese e manierista, consolante, obliquo, la sua arte d’Appennino, italiano perché svincolato dalle imago hollywoodiane, lui nato nell’Ottocento trompe l’oeuil, figlio dell’invisibile; di seguito a chiudere le tre altre vite, Malcolm Lowry che avrebbe voluto vivere nella foresta, all’alba, e invece gli rimane solo il maelmstrom dei confini labili sui quali incastonare parole; e poi un intero periodo storico, forse quello della giovinezza per l’autore, che qui si concede forse l’unico cenno di nostalgia, del resto siamo agli annali, alle ricorrenze, il cinquantenario dal Sessantotto e allora via alle storie, ai destini incrociati di Buñuel, Coltrane, Dylan. Le vecchie passioni di Giacopini, il jazz, la musicalità nel ritmo dei pensieri, incastrati, conficcati a maglio dentro la grande Storia, l’altra lettura di chi c’era e allora non sa ma ricorda, un Proust esicasta, che fugge il mondo senza odiarlo, malgré lui-même, “Out of the world” come recita il titoletto del triplice capitolo, fil rouge e alleanza filosofica, ontologia di tre uomini che potremmo essere noi nel deserto, tra le valli assolate senz’acqua senza scampo, a grattare via le illusioni dallo scisto, scarnificando le illusioni dalle ombre, separando il giusto dall’iniquo e la comprensione dal gesto, perdere e riapparire come cantava Dylan, Perdere. Ma almeno senza fare compromessi. Fino, infine, all’abisso aperto, squarciato da Martin Heidegger, con la sua mistica presenza sonniloquente, che termine inesatto ed errato per definire il mondo, ma quale lo è? Tutto tempo sciupato, inutile, avrebbe risposto oracolare, abiurante, Zeit, l’ex docente di Friburgo, internato prima, poi divenuto filosofo-star, che non rende certo come archistar, l’uomo Essere condotto alla notte, all’oblìo.
Ed è forse proprio qui il tratto comune dei personaggi-persone, di questi characters, delle storie di Giacopini, la dimenticanza.
Sono tutti, in un certo senso, eremiti. Di alcuni ce ne siamo, a malo torto, dimenticati. Ed è una sciatteria senza rimedio, la nostra, ci obbliga a pensare l’autore. L’eleganza del Novecento che non siamo più in grado di trovare. Cristalli di Boemia esplosi in mille pezzi, o pezzi da mille, frantumati nello scoppio dei referenti, come nella nostra epoca però, e qui c’è il tratto comune che dalle storie si riverbera fino a noi, ragione ultima forse delle scelte di Giacopini autore di raccontarci quelle storie e non altre, la necessità di una bussola dei pensieri. Al netto dei punti cardinali.
Ci saremmo aspettati capitoli come regole monastiche, insomma, a leggere il manuale di Giacopini, massime (e minime) sulle cose da lasciare, res private, privarsi delle cose che sono solo “cose”, sulla via di San Francesco, gli insegnamenti del rabbi, Ραββί, Maestro, διδάσκαλος, didàskalos. Al massimo l’illusione, il gioco di prestidigitazione del titolo apre il sipario su un senso di solitudine ormai, per noi homini e contemporaneità, raro quanto impossibile, con quella parola – con le parole che mettono in forma il mondo, avrebbe detto guardandoci in tralice Wittgenstein – “eremita” che rimanda alla memoria vecchi barbuti scalzi in mezzo alle foreste, coi capelli crespi e le unghie lunghe a scavare la terra come la morte, vermi a erodere ricordi, smantellare le colpe, il corpo.
È che infine forse il vero manuale dell’eremita, qualsiasi cosa significhi – spogliarsi dei propri averi, abbandonare la città, vivere nei boschi di Walden, ritirarsi a vita agiata – Giacopini non sa e non vuole dire, non vuole dirci niente, poiché nulla sappiamo. Piuttosto, Il manuale dell’eremita – raffinato il progetto grafico di orecchio acerbo per le edizioni dell’asino – che non avremo letto se non nelle vite degli altri, quel manuale, l’unico per sé, l’autore ci invita a scriverlo direttamente noi.
La libertà di un ordine disincantato, a disporre dei giorni, quasi fossero fiori blu, appena prima dei vespri del mattino.