(extended version)
È tempo di mutare. Tempo
di cambiare lingua e attraversare il mondo. Tempo di nuove direzioni. Di suoni
intimi, di ghiaccio e rabbia espressa. Esce – in Italia e nord Europa – The Regency (ed.SFEM-The Lads /
Audioglobe) il nuovo album dei nokeys (domani, 13/11 nokeys showcase@FNAC Roma, ore 18)
«Le “reggenze” sono tempi
particolari, rappresentano il tempo che intercorre tra due regni» dice Rico
(voce del gruppo) «sono tempi instabili e difficili che, nel nostro caso,
raccontano un’esperienza di cambiamento». Nella musica dei nokeys «il mutamento ha avuto inizio quando si sono incanalate
alcune situazioni collettive con le personali».
Neve, città al limitare del crepuscolo, cieli nebulosi e striati, paesaggi freddi: The Regency è suono glaciale e caldo, dinamica degli opposti (MySpace). Merito di una scelta di linguaggio che alterna italiano e inglese nei testi, un progetto che nasce da contaminazione e creatività collettiva «abbiamo tutti personalità molto forti, ma il singolo forma il gruppo: tutti i brani sono firmati nokeys, ognuno aggiunge una sorgente diversa, vogliamo evitare l'autoreferenzialità».
I nokeys sono di Parma «il nostro nome esprime il concetto di
negazione (“no keys” vuol dire “senza chiavi” ndr)». Mentre parla, lo smalto nero di Gatto (basso) rende bene la
doppia anima del gruppo – il minimalismo serio dei Joy Division attutito da un
accento evidentemente romagnolo «il messaggio che ne viene fuori non è necessariamente
propositivo, è una concezione anti-ideologica delle cose: per noi il messaggio,
se esiste, non va cercato nelle chiavi di accesso». Per arrivare ai suoni di The Regency i nokeys hanno cambiato molto, nei suoni e nel modo di essere, una
nuova direzione artistica «la svolta c’è stata durante un live ad Atene, ci
siamo trovati su un palco e abbiamo deciso che da quel momento in poi iniziava
una nuova fase». Durante i live, si dipingono il volto: «tracciare linee vuol
dire cancellare, cancellarsi».
Le righe nere dipinte
sulla faccia dei nokeys sembrano
simboli di guerra dei vichinghi, il popolo della Scandinavia. Vik, il “popolo dei fiordi” si dedicava
alla pirateria, spingendosi in terre lontane per commercio e desiderio di
conquista. A qualsiasi latitudine, simboleggiavano il viaggio, le terre “oltre
confine”. Così i nokeys hanno deciso
di salpare dal mare della musica verso le terre del Nord. E oltre…
In molti, hanno definito
la musica dei nokeys, post punk-new
wave ma per Lu (chitarre, synth) «la nostra è una ricerca di suono». Prima di
arrivare ai suoni attuali «abbiamo fatto una lunga pausa, abbiamo ascoltato
molta musica: devi capire da dove vieni per capire dove stai andando».
Il progetto nokeys è «un filtro, un prisma a quattro
lati» che produce musica e idee, dove anche il disco «è un'esperienza. Non un semplice
insieme di hit». E una modalità di
lavoro Open Source «dove tutti condividono i testi e i suoni in modo aperto,
noi siamo la factory che crea il software» aggiunge Rico.
L’album «è stato prodotto
in Svezia (da Stefan Boman, già produttore dei Kent ndr) e, nei prossimi giorni, partiamo per il live tour nelle
principali città del nord Europa» continua Lu. «Del nord Europa ci interessano
quei suoni, la potenza delle produzioni, l'approccio compositivo (un nome su
tutti, Depeche Mode)».
Nell’album «abbiamo
tentato di parlare di un tempo in cui non sei mai fermo, un tempo di cambiamento
costante in cui confluiscono stati d’animo diversi e collettivi». Il tempo dei nokeys, conferma Gatto «è un’unità di
misura che non va accettata mai in modo passivo. Il nostro è un tempo rabbioso,
carico di tensione: le esperienze passate, definitivamente, si sono trasformate
in un dolore non rassegnato, reagito»: musica.
Beppe Fenoglio nei suoi
libri introduceva parole inglesi nel testo. Nella musica dei nokeys l’uso dell’inglese è questione di
etica «spesso la musica italiana ha paura di usare le parole per quello che
sono, e siccome l’inglese – lingua pratica, diretta – era parte di noi, l’uso
di questo linguaggio ci ha permesso di superare alcune impasse creative». I riferimenti musicali della band sono «Johnny
Cash, che intendeva la canzone come legame con le cose, e Leonard Cohen che
metteva in musica le paure dell’uomo, le immagini». E poi «la musica degli anni
Ottanta: una falce affilata piena di fenomeni specifici che avevano determinate
sonorità, anche commerciali con un’attenzione alla rotondità dei suoni». La
musica in quel periodo «non aveva paura, era supportata da un’ironia brutale,
anche verso se stessi». Da The Smiths ai Depeche Mode, cantare aiuta «a non
sentire il peso di quello che dici, a reggere il significato delle cose, che a
volte è troppo sottile…». Un modo di creare dalle emozioni profonde, che però
non abbatte ma lenisce, permette di r-esistere
«come i testi dei Nirvana, che parlavano di disperazione ma, proprio perché ne
parlavano, riuscivano a depotenziarla». Se per Brian Eno l’errore
è “intenzione nascosta”, dice Rico: «usiamo l'errore perché sbagliare rende
possibile la sperimentazione, così si trovano i suoni senza dover conoscere
necessariamente il risultato».
Il tempo, variabile e
condizione prima del disco «è un’equazione che mette in relazione ciò che è
stato prima con quello che deve ancora accadere».
La musica «non abbiamo
deciso di fare un disco new wave o post punk, siamo partiti da ascolti
diversificati, che poi hanno generato un “rumore” diffuso». La diversificazione
ha permesso «di mettere a fuoco la nostra musica di adesso, che recupera
direzioni (anche del passato), prima non eravamo capaci di creare a più dimensioni…».
Tecnica e tecnologia «le nostre attrezzature cambiano ogni sei mesi, a seconda
delle esigenze», continua Lu. Spesso «suoniamo con un sound generator (tipo KORG) che usiamo per campionare i suoni in
diretta, riesce a dare un effetto piuttosto straniante…».
A
dicembre inizia il tour in Svezia e Danimarca «il live cambierà a seconda del
posto. La duttilità è fondamentale perché ogni pezzo ha una sua dimensione, una
vita e una distanza». Da attraversare.