Roma di Vittorio Giacopini

(una recensione parziale)

roma

Il romanzo Roma di Vittorio Giacopini (ilSaggiatore, €21) è una congiunzione.
Una vocale che nelle oltre 400 pagine viene ripetuta e a furia d’essere espirata – repetita iuvant ma certo bisognerebbe sapere, giova a chi? – compone un romanzo-e: con la vocale che ti entra in testa una, due, tre, cento, mille volte, e così lobotomizzante che alla fine si tramuta in “ancora” e ancora e ancora. E ti strozza, o t’affoga, dipende da come je gira a Lucio alias l’abominevole Lunfardi.
Non è solo un romanzo questo Roma, piuttosto un memoir con dentro tutto il vocabolario che possa costituire un autore, parola che non a caso deriva da augeo aumento del reale per mezzo degli occhi altrui, Roma di Giacopini in questo senso è un mondo dentro un mondo, escatologico, biosferico, una guida sotterranea con tanto di legenda e lessico memoriale, dove però i nomi si accaniscono gli uni contro gli altri, come i giochi dell’antica Roma.
Il plot è facile insomma. C’è una città allo sbando (fiction?) e poi c’è questo tizio, Lucio Lunfardi che questa città la ama, ma pure la odia, e che memore di Nerone che la bruciò ha questa semplice idea: per far rinascere l’aquila dalle sue ceneri, la lupa va affogata, altro che salvare Romolo e Remo-lo dal fiume. Lunfardi-Giacopini col Tevere ci vuole sommergere ’a capitale (ma quante volte scrive “marana”). Così, “nun ce se pensa più”.

Roma di Giacopini è una mappa geografica con didascalie, l’autore capitolino, giornalista, classe ’61, inonda e rubrica vie, racconta una vita esasperata, marginale.
Intesse un romanzo praticamente senza usare dialoghi, forse perché non esiste più dialogo, e allora questo Roma è un romanzo silente, imbarazzato, senza più parole e proprio per questo soggiogantemente pleonastico, pletorico, eccessivo, afflitto da logorrea, prima e dopo, il silenzio assordante del vedere l’assurdo che diviene realtà. Roma, oggi.
Giacopini si ricorda com’era la sua città, e qui forse viene fuori il vissuto: Roma questo non-romanzo, questo nonluogo, è piuttosto una mappa orizzontale e verticale, in cui l’autore gioca ad andare mai avanti ma indietro nella memoria, la sua parziale, il suo personaggio odia tutti nel tempo del buonismo dei parvenu, scomoda il tempo degli ittiti, ci racconta le meraviglie appena fuori l’eterna: il lago del Turano in provincia di Rieti, le altre città del Lazio che non esistono perché Roma, per fare spazio a se stessa, le altre civiltà le bruciava, vedi gli etruschi.
Giacopini fa una lista della spesa veritiera dell’orrido presente di Roma costituito da negozietti che vendono cialtronerie gladiatorie, ombrellini orientali, pacchetti di pasta dalla fallica forma, calendari, purtroppo della Lazzie (ancora l’uso della “e” in finale di parola), della Maggica (lo capiranno i non romani?).
Roma è parola che non significa più niente, non è neppure più femminile, forse la colpa è tutta qui, secondo la logica lunfardiana, una città divenuta maschile. E allora, sovviene, che forse il Giacopini volesse scrivere magari un libro femminista che allegoricamente fa riflettere sulla caduta del maschio, in attesa che dal panem et circenses si passi, fatalmente, finalmente, a una società “wonderwomica”, amazzone.
Vittorio Giacopini inventa, usa ironia e calembour, sembra ci abbia voluto ficcare dentro tutta la Roma che ha visto e vede, come il Bolaño di 2666 (ma quante volte scrive “ipogeo”?). Una ridda di citazioni, aneddotica da strada, richiami, storie dentro la Storia. L’autore ha persino tempo per citare Jeff Buckley, così en passant, tanto “Tutte le strade portano a Roma” o a morire in acqua, tra i flutti, da qualche parte. Ne sanno qualcosa quelli che vogliono venire qui da noi a rubarci il lavoro e le donne, italiani brava gente, popolo di migranti in verità, ma fa diventare caustici la lettura di questo romanzo. E c’è spazio per tutto. Per il bellissimo termine “massoneria d’accatto” coniugato a Mafia capitale, il mitico refrain: «Donne è arrivato l’arrotino», Giacopini parla di Roma ma in realtà alza il tendone da circo sulla tragicommedia di noi tutti, abitanti dell’anno domini 2017, non sono più i tempi del colera ma della grande truffa del presente, la web economy, vista, travisata, filtrata dagli occhi di Lunfardi, la sua weltanschaaung.
images

Roma di Giacopini è un memoir degli ultimi 50 anni costruito con un vocabolario di romanità e roma-lessico-pensiero, in cui il protagonista bombarolo al secolo Lunfardi Lucio è personaggio-Pasquino vivente all’epoca dello scialo, un Tempo che, se mai è esistito, non è più solo letterario (vallo a dire a Proust) ma condizione umana (e non certo quella di Malraux).
Piuttosto questo di Giacopini è un libro-buco, un romanzo-matrioska, dove tutto è a salti e affastellato, senza continuum a picchi – e forse mancano solo questi volatili buca-tronchi tra i mille uccelli citati nel testo dall’ornitomane Lunfardi – ed è un libro di cadute, un’astuta sarabanda di pensieri e salti temporali, anche perché di tempo dunque esiste solo quello atmosferico, ed è solo questione di… tempo, ci sommergerà tutti, per fortuna.
Si toglie anche molti sassolini dalle scarpe Giacopini (di nuovo, en passant, coniugando piccoli e grandi personaggi del presente, uno su tutti delucaerri) un non romanzo pieno di revenants e madeleines, dalla scrittura incosciente e soverchiante, Giacopini – dopo i rigori di Re in fuga e Cagliostro, magnifici romanzi di misura e racconto – qui toglie gli argini, abbatte la diga e si fa acqua, il liquido che invade e sommerge, eccedente, iconoclasta, dissipatorio, senza garbo; il protagonista di Giacopini è incurante, persino del suo stesso dare fastidio e non certo, e non perché, superiore per censo, quanto per incuria, abbandono alla vita-spazzatura, come Roma appunto: abbandonata a sé, nei secula seculorum. Di più ancora oggi, all’epoca di Manlio Cerroni, il re della monnezza. Altra strizzatina all’attualità
Un romanzo rutilante, dunque, che non lascia scampo e ti si attacca addosso, non molla, esuberante e scomodo, senza poltrona, pure perché di poltrone occupate, e Ministeri e portaborse, a Roma ce ne sono troppe mica c’è spazio per tutti, se non conosci o sei amico, o amico degli amici.
Giacopini è studioso raffinato, per suffragare la sua tesi finale, ci riporta ciò che l’Encyclopédie scriveva alla voce “Roma”, di fatto, la stroncava – aperte virgolette Ebbe ragione chi disse che i sette colli, una volta ornamento della città, oggi non le servono che per tomba!, chiuse virgolette – e così in questo suo mediterran-maelström, dentro questo romanzo-fiume Giacopini può narrare le gesta di terroristi “fai-da-te”, proprio a noi che viviamo ai tempi dell’Isis, mentre sappiamo che le ricette per fare le bombe ti vengono servite coi tutorial e bastano giusto un po’ di nozioni di chimica, tanto – come dice il popolo bue – su Internet c’è tutto, alla faccia di Rousseau (ma quale, il filosofo o la piattaforma movimentista-politica?).
L’autore si diverte mentre scrive ed è evidente, fors’anco a danno del lettore (usa parole come “concione” nel suo vocabolario-mondo) motteggiando à la Rabelais e scrivendo forbito come Guicciardini, infarcendo il testo dove e quando può di neologismi.
Questa Roma è un monstrum, dal latino meraviglia, monere, che però allora è pure ammonimento (di ciò che non si può tra umani e dèi, come dire contro Natura) e allora ci avverte Giacopini-Lunfardi, con una doppia negazione: «E poi nun dite che nun v’aavevo detto». E’ un organismo, una maximum city per dirla in modo inutilmente colto, che non regge al suo stesso peso, infinita, eccessiva, bulimica. Ed è un testo alighieriano (“guata”) e latino quanto i Te Deum, da ascoltare con sotto Thelonius Monk di Alone in San Francisco (la musica, il jazz!).
1bebe8759e23ab6a1b92e1d46e2e7f12

Giacopini ci ricorda che oggi questa è città “una e trina”: Roma Tre, a cui nessuno pensa, e ci immette, siamo nel flusso di pensiero di Lunfardi (che non ha coscienza), nel suo pensiero-marana, ed è allora che capiamo che più che altro questo libro vuol essere forse un j’accuse senza assoluzione, senza soluzioni, che dipinge le gesta di un quasi-eroe senza macchia, un cittadino al di sopra di ogni sospetto, un’eminenza grigia con progetto.

Lo scrittore ci invita a “singolar tenzone” (con buona pace della divisione in lettori di primo e secondo livello, v. alla voce Barthes ed Eco, chi lo capisce bene e chi non lo capisce? «‘Sti cazzi», risponderebbe Lunfardi).
È un testo che mano mano che si va avanti nella lettura, ci lascia sempre più annichiliti. Dai chilometri che, evidentemente, servirebbero per lastricarla, asfaltarla, questa Roma (e invita sempre a coniugarla con parolacce, che remano sotto, albergano nella cadenza, nella metrica del sottotesto), Roma. Ma che è? Chi è il lettore? Chi siamo noi? È la domanda che sembra farci Giacopini: Chi sei? Cosa ne rimarrà di noi. E ci starebbe persino Frank Zappa, I am not me. Perché poi c’è la Roma di Giacopini-Lunfardi e la Roma vera. Ma poi chi la conosce questa ottava meraviglia, davvero? Roma, quale? Quella dell’Impero o quella degli americani, la città dell’Ottocento, la francese o la papalina, quella del Marchese del Grillo, Roma dell’ebbrei o quella di Aldo Fabbrizi, della Sora Lella, dei carciofi alla giudia e le fettine panate, la matriciana (pure se viene da Amatrice, storpiata, romanizzata in matriciana, per afèresi, “Ma che cazzo vor dì”?, eppure), Roma pajata, ladrona, o quella del Colosseo ma quale? Quello quadrato o quello coi buchi?
Roma-centro o “buco di culo” (lo scrive l’autore ndr) del mondo. Quale mondo allora?
È tutto in discussione nel libro di Giacopini, perché la città, la culla della civiltà e dello ius romanum, il potere, il dominio, esiste da troppo tempo. Questo Impero decaduto, imbarbarito. Si stava meglio, quando?
È solo che ne ha viste troppe, Roma, forse. Come rispose l’aristocratico romano alla petulante moglie del diplomatico statunitense: «Quando voi vivevate ancora sugli alberi, noi eravamo già froci».
Sotto questa Roma lunfardiana scorre una scrittura agitata, una matassa liquida dove gli altri personaggi se ci sono, sono caricature di sé, al limite, parossismi e comparse fra i liquami, carachters funzionali – la dark writer Ariela, il gregario De Angelis – che servono allo scopo, al Piano superiore, meri meccanismi dell’impianto annegante. Eppure. Todos somos Lunfa. Sembra parlare di noi ai tempi miseri della Social Era, questo libro che ogni tanto vorresti abbandonare come probabilmente i salvati sull’Arca di Noè, noi naviganti dispersi nel DigiMondo abitato non più da noi ma solo dal nostro ego, per 15 post di celebrità al giorno; il nostro presente continuo che fa apparire in tv (appena 4 ore dopo l’omicidio) queste madri telegenicamente disperate di figlie quindicenni ammazzate dall’ex con un colpo di pistola in faccia. E allora, forse, che non sarebbe meglio affogare tutti?, “Sommergiamoci” sembra dirci questo Lunfardi: coscienza collettiva, Lucio il taglieggiatore di verità subacque, la maschera Lunfa dietro la quale si cela il Giacopini Prometeo liberato. E allora rimane solo il titano dell’acqua a sommergere la chiavica sociale divisa ormai equamente fra consumatori del tubo catodico e user della Rete. Divisioni per i sociologi, ma pur sempre di buchi si tratta.

In chiusura sullo stile.
La furia cieca, scientifica, rabbiosa, pazza, visionaria di Lunfardi fa un po’ fatica a sedimentare ed essere assorbita, troppo causticamente omnicomprensiva, poco leggera e mainstream, nel suo essere nazional-popolare. Resta da capire, per chi finirà le pagine, se alla fine l’oscuro proposito, allacar d’acque roma ormai ridotta senza lettera maiuscola, se dunque finirà o no sotto l’ardito scoppio terracqueo?
In attesa che le acque si ritirino e la tenue calma del bordo della scrittura di Giacopini si ridistenda, e finalmente ci tragga in salvo, sempre che l’autore ci sopporti ancora razza umana degenere, e ha ragione lui, e si possa approdare ai lidi sabbiosi e caldi di altre storie. Che di scrittori così, da Cecco Angiolieri in avanti, ne abbiamo tutti bisogno.