“bring the noise”: a colloquio con Simon Reynolds

HIP-HOP-ROCK_piatta
Simon2007_publicity 

(si ringrazia per la traduzione e la disponibilità, Michele
Piumini – traduttore di entrambi i titoli di Reynolds)

È
uscito da poco Hip-hop-rock (ISBN
edizioni, 2008) di Simon Reynolds, giornalista musicale inglese. Dopo Post-punk (ISBN edizioni, 2006), e il
periodo 1977-1984, Reynolds analizza – con il suo stile asciutto e acuto – la
musica dal 1985 a oggi, il binomio evidente con la tecnologia. «Tutta la musica
pop e rock è elettronica (o quanto meno lo è stata a partire dagli anni’60, se
non prima), nel senso che è mediata dallo studio di registrazione: ciò che
ascoltiamo non è la testimonianza diretta di una performance dal vivo, ma il
risultato di un processo e di una manipolazione. La chitarra elettrica è uno
strumento elettronico, dato che il segnale viene alterato tramite gli effetti e
la stessa amplificazione. Se però intendiamo l’elettronica più specificamente come musica sintetizzata, allora
possiamo dire che i Kraftwerk furono i Beatles del pop elettronico: da loro
nacquero il synthpop anni’80, l’electro nera americana, la techno e la trance.
Senza dimenticare l’enorme importanza del sound Eurodisco di Giorgio Moroder».
L’opera d’arte
nell’era della sua riproducibilità tecnologica
deriva da processi
di identità individuale/sociale e da linguaggi/codici «complessi, a volte
dolorosamente coscienti di sé, impegnati in una costante dialettica di
auto-definizione che scardini il sistema di idee invalso. Una sorta di ideale
rivoluzione permanente». Il
progresso, anche nell’era MTV, è legato agli strumenti «il rock ha sempre
venerato la macchina come fonte di potenza e libertà individuale. Vedi canzoni
come Born to Be Wild degli
Steppenwolf: «keep the motor running… explode into space». È una sorta di
relazione erotica con la tecnologia. Questo elemento, inoltre, ha pervaso ogni
genere di musica pop: dal rap con il suo culto degli assordanti sound system
delle auto all’immaginario bellico dell’heavy metal, fino alla techno con la
sua ossessione per i computer e i viaggi nel tempo. Oggi, più che la musica, la
gente sembra idolatrare i dispositivi usati per ascoltarla, come l’iPod».

Reynolds

Alcune
teorie sostengono che la “vera” informazione risieda nell’errore «L’uso non convenzionale della tecnologia per ottenere
sonorità imprevedibili ha una lunga tradizione nel rock: dal feedback di
Hendrix e Velvet Underground allo scratching dei DJ hip hop, dai primi
produttori techno-rave che acceleravano le parti vocali con il campionatore
agli sperimentatori elettronici di fine anni’90 con i loro glitch, un sound tutto distorsione digitale e sussulti di CD
rovinati. L’esempio più recente è il nuovo album di Kanye West, nel quale
l’AutoTune viene bistrattato e distorto per ottenere vocalità straziate».
Nell’evoluzione
post-rock (ieri) / cyber-rock (domani), alcuni gruppi hanno compiuto il “salto”
dal reale al virtuale/mp3 «Molte delle cose di cui parlavo nei miei articoli
sul post-rock alla fine degli anni’90 sono diventate realtà comune nel rock
moderno: l’uso dei software di editing digitale per riarrangiare e processare
il suono all’infinito, l’abbandono definitivo del modello di registrazione
live. Purtroppo, a differenza di quanto mi auguravo, questo non ha portato a
una musica davvero astratta, bizzarra e futuristica: la gente usa Pro Tools per creare un rock simulato e
artificiale, musica che somiglia al rock d’altri tempi ma non ne condivide la
vitalità e la spontaneità, per via delle tecniche digitali con cui è prodotta.
In termini di mezzi di produzione è cyber-rock, ma è costruito per ricordare
superficialmente il rock degli anni’70: antiquariato riprodotto, insomma».
Questo vale per l’underground come per il mainstream «i Radiohead del periodo Kid A/Amnesiac (2000) sono quanto di più
vicino al mainstream abbia mai prodotto il post-rock nella mia accezione del
termine. La metodologia utilizzata per quei dischi era completamente in linea
con le mie idee dei primi anni’90, a cominciare dal fatto che Thom Yorke aveva
passato molto tempo ad ascoltare musica elettronica dei primi’90 prima di
iniziare Kid A: esattamente come
facevano i post-rocker originari come i Seefeel nel 1993».
La
musica indipendente esiste ancora, è un’utopia attiva, o gode di un’esistenza
marginale concessa dalle major? «Nel periodo post-punk di fine anni’60 e inizio
’80, si aveva la sensazione che le etichette indipendenti ritenessero di poter
assumere il comando, usurpando il ruolo fino a quel momento esercitato dalle
major. Erano convinte di potersi dotare di un network di distribuzione
indipendente sufficientemente organizzato da convincere i gruppi ribelli, o
dediti a sperimentazioni estreme, a non firmare con le major. Un obiettivo che
non si realizzò mai davvero, e per un certo periodo le etichette indipendenti
diventarono una sorta di accessorio del sistema delle major, con il compito di
coltivare gli artisti fino al punto in cui, ottenuto un loro seguito,
decidevano di firmare con una major per fare il salto verso il successo. Oggi
si ha l’impressione che le etichette indipendenti finiranno per diventare
l’ultimo rifugio della musica interessante, se le major si estingueranno, come
sembrano destinate a fare a meno che non sappiano reinventarsi per l’era
dell’mp3». Poi, la musica procede per evoluzioni tecnologiche «La produzione di
microfoni sempre più sensibili ha aperto la strada a una forma di canto
completamente diversa: non più obbligati a cantare a pieni polmoni come davanti
a una sala piena di pubblico, gli artisti potevano elaborare uno stile vocale
più intimo e sussurrato. La chitarra elettrica e le varie forme di distorsione
(fuzz, wah-wah, ecc.) applicate allo strumento ne hanno ampliato enormemente il
vocabolario sonoro. Le tecniche di editing del nastro inventate dai compositori
di musique concrète e poi adottate
dai musicisti rock (Beatles, Hendrix, Pink Floyd, Eno, ecc.) permisero di
creare sonorità inedite di ogni genere, mentre la registrazione multitraccia
donò alla musica una nuova spazialità. Il fenomeno si allargò ulteriormente con
il dub reggae, che trasformò effetti come l’eco e il riverbero in una vera e
propria estetica. L’avvento del sintetizzatore polifonico, della batteria
elettronica e del sequencer portò a decenni di musica dance ipnotica e
ultra-precisa. Quanto al campionatore, riuscì a rendere popolare la musique concrète e il postmodernismo,
tagliuzzando il tempo pop in brandelli da ricucire poi insieme».
Da
Woodward/Bernstein a Lester Bangs, qual è oggi il ruolo del giornalismo
musicale? «Il giornalismo musicale di oggi esiste soprattutto per oliare le
ruote del commercio: recensioni e interviste vengono sfornate come parte delle
campagne promozionali dell’industria discografica. Lo spazio dedicato alle
recensioni è sempre più ridotto, e questo rende difficile fare del giornalismo
che non sia solo consigli per gli acquisti. Qui e là, sui grandi media, è ancora
possibile trovare giornalisti che tentano di restituire alla stampa musicale la
sua funzione originaria: individuare correlazioni, dentro la scena musicale o
tra la musica e l’universo culturale/sociale/politico/storico; lanciare sfide
alla musica e ai musicisti. Ma si tratta di un giornalismo che ormai sopravvive
quasi solo in angoli remoti del panorama mediatico: piccole riviste,
pubblicazioni saltuarie, webzine, blog musicali».
E allora… tre CD da regalare:
«Kanye West, 808s & Heartbreak;
Portishead, Third; Crystal Castles, Crystal Castles». Il migliore album di
tutti i tempi: «impossibile da scegliere». Il migliore album del 2008: «Vampire
Weekend, Vampire Weekend».
Se
dovete leggere un solo libro di musica nella vita, regalatevi questo!